In Ticino a metà maggio si sapeva che nel 9,73 per cento dei 4728 campioni di siero prelevato da personale sanitario volontario sono stati rilevati anticorpi che indicano una probabile avvenuta esposizione al Covid-19: è il risultato parziale di uno studio partito il 16 aprile con lo scopo di verificare, attraverso test sierologici, la presenza di anticorpi nel sangue del personale sanitario in quanto potenzialmente più esposto al SARS-CoV-2. Ricerca che, ha spiegato il medico cantonale Giorgio Merlani, a fine aprile è stata estesa a un campione rappresentativo di popolazione ticinese: «1500 ticinesi, dai 5 anni in su, sono stati selezionati a sorte da un campione staticamente rilevante».
La partecipazione, facoltativa e tutt’ora in corso, ha visto aderire la maggior parte delle persone interpellate ed è votata a identificare la possibile siero-prevalenza nella popolazione (ovvero l’impatto e la velocità di trasmissione del virus) attraverso prelievi di sangue a 0, 3, 6 e 12 mesi.
L’Ufficio federale della salute pubblica si è posto le stesse domande e ha avviato un’analoga ricerca per capire quante persone in Svizzera hanno sviluppato gli anticorpi contro il Coronavirus, raccogliendo dati epidemiologici sull’immunità Covid-19, testando cittadini di diverse regioni e specifici gruppi di popolazione per capire pure l’estensione e la durata dell’immunità al virus. A metà giugno, dai risultati delle stesse ricerche sierologiche condotte dal 6 aprile al 9 maggio da un team dell’ospedale universitario di Ginevra, si evince che soltanto il 10,8 per cento della popolazione ginevrina (che si attesta attorno al mezzo milione di persone) ha contratto il nuovo Coronavirus durante l’emergenza sanitaria.
Per capire meglio l’impatto del virus sull’essere umano bisogna passare dallo studio del sangue e tutti abbiamo integrato nel nostro nuovo vocabolario scientifico termini come test sierologico, siero-prevalenza, anticorpi e immunità. Manca però una comprensione più profonda su cosa sono i test sierologici, cosa valutano, a cosa servono, quale sia la loro affidabilità e via dicendo.
«La sierologia è un campo complesso e dallo sviluppo complicato, sebbene molto quotato nell’ambito medico e di ricerca sanitaria», esordisce il professor Ilker Uçkay, infettivologo alla Universitätsklinik Balgrist (ZH) e professore alla facoltà di medicina dell’Università di Zurigo. Egli così riassume il senso di questi esami che spiega essere oggi appannaggio unico di studi specifici e non previsti, per ora, per la popolazione in generale, né raccomandabili ai medici di famiglia: «Attraverso i test sierologici è possibile andare a individuare gli anticorpi prodotti dal nostro sistema immunitario in risposta al virus. Ve ne sono di diversi tipi: con il prelievo di una goccia di sangue dal dito si può stabilire se la persona ha prodotto anticorpi (ed è quindi entrata in contatto con il virus), oppure vi sono test che con un prelievo di sangue dosano in modo specifico la quantità di anticorpi prodotti. In entrambi i casi si va alla ricerca di diversi anticorpi, fra i quali, ad esempio, le IgM sono quelle prodotte temporalmente per prime in caso di infezione».
Conoscere la presenza di questi anticorpi è utile per molte ragioni, ci spiega il professore, ma per una serie di motivi l’estensione dei test a tutta la popolazione non avrebbe senso: «Siamo ancora al livello di diversi studi; sappiamo ancora molto poco su quanto gli anticorpi restano, quanto a lungo e quanto realmente sono protettivi, e se infine poi il virus non muta ancora».
Di analoga opinione è il dottor Alessandro Diana, infettivologo e ricercatore all’Università di Ginevra: «Il campo della sierologia Covid è ancora un po’ una nebulosa di cui non abbiamo capito come, quanti e quali siano le stelle e quali i pianeti». Diana ci spiega che l’approccio ai test sierologici del Canton Ginevra è iniziato molto precocemente: «Premesso che i Cantoni hanno differenti attitudini all’approccio, il laboratorio di virologia dell’Ospedale universitario di Ginevra ha iniziato con questi studi verso il 23 marzo, studiando i test sierologici dei pazienti ricoverati, di quelli ambulatori (persone con sintomi più lievi che non hanno richiesto il ricovero), e delle persone in regime sia di ricovero che ambulatoriale».
Ad oggi, egli afferma di poter esprimere alcune osservazioni che però, precisa, meritano ancora le dovute verifiche: «Dopo circa 3 settimane dal contagio, quasi tutte le persone ospedalizzate avevano sviluppato anticorpi nel sangue. Non si poteva dire lo stesso per i pazienti con sintomi più leggeri e non ospedalizzati, la cui risposta immunitaria è risultata più lenta perché i loro anticorpi erano messi in evidenza più tardi (la sierologia negativa a 3 settimane diventava positiva a 5 / 7 settimane) rispetto a coloro che sono stati afflitti dalla forma più grave della malattia».
Tutto è dunque ancora in divenire, complicato dal fatto che ancora non si conosce il «declino degli anticorpi», come spiega Diana: «Sappiamo che dopo una malattia noi sviluppiamo anticorpi, e l’unico modo per misurare l’immunità sta nel ricercare nel sangue queste armi sviluppate dalle nostre cellule immunitarie. Ma sappiamo pure che col tempo gli anticorpi vanno diminuendo». Detto così pare che non se ne esca, però: «Il nostro corpo dispone di una cosiddetta immunità cellulare: dopo essere stato a contatto con un virus, esso sviluppa anticorpi che vengono a cadere quando non è necessario combatterlo perché non c’è più. Però le nostre cellule ne mantengono la memoria e si riattivano nella produzione di questi anticorpi qualora dovessimo nuovamente entrare in contatto con l’agente patogeno».
Il nostro organismo, spiega lo specialista, registra e memorizza la battaglia fatta contro quel virus, pronto a riprodurre le armi necessarie a combatterlo quando sarà necessario, ma senza sprecare energia per produrne continuamente quando non è il caso perché il virus non circola. Naturale, quindi, chiedere al dottor Diana se questo funziona anche per il Coronavirus: «Non lo sappiamo, anche se la probabilità biologica esiste: quando una malattia induce un’infiammazione così importante, il sistema immunitario dei mammiferi (in quanto evoluto) sviluppa una sorta di “print”, una memoria nella quale poi risiede la sua grande forza per combattere future infezioni dello stesso virus. Purtroppo, ad oggi sappiamo sì misurare gli anticorpi, come stiamo facendo coi test sierologici, ma non sappiamo ancora misurare questa “memoria” cellulare».
Quel che si sa, per concludere, è che la raccolta di questi dati permetterà di tracciare una storia della malattia, in attesa di sviluppare un vaccino e le terapie più adeguate.