Aegis Ashore – Il sistema antimissile americano che Tokyo non vuole più comperare. Ma dietro a questo rifiuto ci sono Cina e Russia
Lo chiamano il maverik della politica giapponese. Taro Kono, 57 anni, è l’attuale ministro della Difesa giapponese, nominato a settembre 2019 dal primo ministro Shinzo Abe dopo due anni alla guida degli Esteri. È stato lui, il mese scorso, a presentarsi al Kantei, l’ufficio dell’esecutivo di Abe, e a dire al capo del suo governo: lo so che è una decisione enorme, ma non possiamo andare avanti con l’installazione del sistema antimissile americano.
Secondo varie fonti riportate dal quotidiano «Asahi shimbun», Abe avrebbe cercato di fare pressioni: «Sei stato ministro degli Esteri quindi conosci perfettamente la situazione, vero?». La situazione a cui si riferiva Abe è il delicatissimo equilibrio che si sta configurando in Asia orientale, con l’America sempre più distante e la Cina sempre più assertiva. Nonostante tutto, a fine giugno il Giappone ha annunciato ufficialmente la sospensione del programma Aegis Ashore Missile Defense.
Tre anni fa, con Donald Trump appena insediato alla Casa Bianca, Abe aveva firmato un contratto con il Dipartimento della Difesa americana per l’installazione di due batterie di antimissili, che avrebbero dovuto essere posizionati nella base delle Forze di autodifesa giapponesi nella prefettura di Akita, a nord del Giappone, e nella prefettura di Yamaguchi al sud.
Il costo complessivo dello scudo antimissile, che avrebbe dovuto essere operativo entro il 2023, si aggira intorno ai due miliardi di dollari – ma secondo gli analisti sarebbe potuto crescere più del doppio nel giro di pochi anni, per via della manutenzione e dei sistemi di sicurezza. A quel tempo, però, la spesa sembrava necessaria: non solo Shinzo Abe aveva bisogno di mostrarsi il più vicino possibile alle richieste americane, ma il 2017 è anche l’anno in cui il leader nordcoreano Kim Jong-Un è stato più minaccioso. I test missilistici avevano cadenza quasi settimanale, e molti dei missili a medio e lungo raggio cadevano nelle acque territoriali giapponesi.
Trump aveva minacciato «fire and fury», il fuoco e le fiamme: un’eventuale guerra in Corea avrebbe trasformato il Giappone, alleato più fedele all’America in Asia orientale, in un possibile terreno di scontro. C’era bisogno di un deterrente.
La scorsa settimana, per giustificare l’improvvisa marcia indietro sullo scudo antimissile americano, il governo giapponese ha dato spiegazioni che hanno convinto poco i politici, anche dentro al Partito liberal democratico al governo, e gli osservatori internazionali: da un lato c’è la spesa eccessiva, soprattutto in un momento di crisi internazionale dovuto alla pandemia.
Dall’altro la questione ambientale e di sicurezza: i razzi lanciatori che servono a dare potenza ai missili intercettori, una volta staccati dal missile potrebbero cadere su aree abitate o comunque a rischio. «Per il momento, manterremo la nostra capacità di difesa missilistica attraverso i cacciatorpedinieri equipaggiati con l’Aegis», ha detto Taro Kono. Quattro navi da guerra a disposizione delle Forze di autodifesa nipponiche.
Ma non c’è solo il tentativo da parte dell’esecutivo di Abe di mantenere una certa approvazione da parte dell’opinione pubblica. L’altro nodo fondamentale è mantenere un buon rapporto con Donald Trump. L’Aegis è già attivo in Romania e Polonia, ed è un sistema strategico per gli Stati Uniti. È anche per questo che all’installazione su suolo asiatico si oppongono la Russia e soprattutto la Cina, che accusano l’America di voler «militarizzare» l’area del Pacifico con una mentalità «da Guerra Fredda».
Il Giappone ha in mente un precedente molto esplicativo sulle conseguenze di certe azioni: nel luglio del 2016 il governo della Corea del sud decise di andare avanti con l’installazione del sistema antimissilistico americano Thaad, e la reazione di Pechino fu furiosa. Secondo la Cina i radar del sistema, gestiti anche dall’America, avrebbero potuto essere usati per penetrare nel suo territorio e compromettere così l’equilibrio di sicurezza della regione.
A Seul ci furono vari tentennamenti, ma dopo le pressioni americane si andò avanti lo stesso. Nel corso del 2017 la Corea del sud fu colpita da uno dei più duri boicottaggi economici da parte della Cina, e le relazioni diplomatiche tra i due paesi arrivarono ai minimi storici. Soltanto dopo una perdita complessiva di oltre 15 miliardi di dollari di interscambio, e una visita a Pechino del presidente sudcoreano Moon Jae-in, i rapporti tra Cina e Corea tornarono a normalizzarsi.
Per il Giappone si tratta oggi di scegliere se mostrare il lato più accondiscendente nei confronti di un presidente americano instabile e comunque a rischio, in vista delle elezioni di novembre, oppure evitare di urtare in maniera eccessiva la Cina. È una decisione di realpolitik, che potrebbe influenzare i rapporti tra America e Cina per gli anni a venire. Il ministro Taro Kono ha già scelto.