Taglie russe

by Claudia

Unità 29155 – L’intelligence militare russa pagava i talebani per ammazzare i soldati americani in Afghanistan. E Trump lo sapeva già da febbraio

Questo scandalo afghano sembra fatto apposta per fare discutere a oltranza trumpiani e anti trumpiani fino alle elezioni di novembre, fra quattro mesi. Ricapitoliamo il caso: qualcuno passa al «New York Times» una storia dall’Afghanistan di quelle che provocano spaccature internazionali, l’intelligence militare della Russia starebbe pagando i talebani per uccidere i soldati americani impegnati laggiù. In pratica è un sistema di taglie, se i guerriglieri afghani uccidono soldati incassano denaro russo. Non che abbiano necessità di essere motivati per combattere contro gli americani, ma organizzare attacchi è un’attività dispendiosa, se c’è l’incentivo del denaro è più facile raccogliere le risorse e mobilitare le forze.
A occuparsi di questa operazione clandestina è un’unità segreta dei servizi russi che si chiama 21955 e che, come vuole la sua natura, è molto elusiva. Non ne sappiamo quasi nulla, se non che è già stata coinvolta in operazioni sporche in Europa, come un tentato golpe in Montenegro nel 2016 o l’avvelenamento di un mercante di armi in Bulgaria nel 2015 e poi di un disertore dell’intelligence russa in Gran Bretagna nel 2018. Questa unità russa si occupa dei dossier che dovrebbero restare segreti, ma gli americani – e i loro alleati in Afghanistan – ricostruiscono la storia pezzo dopo pezzo. Il mezzo milione di dollari trovato in un covo dei guerriglieri, alcuni pagamenti elettronici, il nome di un uomo che fa da intermediario, le confessioni di alcuni prigionieri che ammettono i contatti con i servizi di Mosca. 
Dopo il «New York Times» anche altri media rafforzano l’accusa, aggiungono altri elementi, contribuiscono a formare un quadro più preciso. C’è almeno un attacco che sembra legato ai russi, risale all’aprile 2019 e uccise tre marines – i giornali sono corsi a intervistare il padre di uno di loro, che ora chiede spiegazioni.
E fino a qui sarebbe una brutta storia che riguarda i russi. Certo, si può obiettare che gli americani facevano lo stesso negli Anni Ottanta a parti rovesciate e finanziavano gli afghani per uccidere soldati russi, ma quelli appunto erano gli Anni Ottanta, c’era l’Unione Sovietica, c’era una sfida permanente e pericolosa, paesi come l’Afghanistan e il Vietnam erano teatri di una guerra per procura che se non si fosse sfogata in quel modo sarebbe diventata nucleare. Oggi in teoria russi e americani non sono più nemici in guerra e siedono fianco a fianco negli stessi organismi internazionali.
Il punto però è che i giornalisti scoprono che Trump era stato avvertito più di quattro mesi fa di questa storia nel briefing mattutino che l’intelligence americana offre al presidente per spiegargli cosa succede nel mondo. Il briefing risale al 27 febbraio, ma da allora Trump non ha mosso un dito contro la Russia, anzi ha fatto pressione per farla riammettere nel G8. L’attenzione a quel punto si è spostata, i media hanno subito colto il potenziale enorme della faccenda. Non era più soltanto una storia sui russi cattivi in un paese lontano dell’Asia centrale, era anche una storia su un presidente che non riesce a scrollarsi di dosso l’immagine di pupazzo di Putin. Per Trump è come un nuvolone sempre presente – e lo segue fin da prima della sua elezione nel 2016. Se sapeva da febbraio, perché non ha fatto nulla contro la Russia?
Digressione. Trump ha un rapporto conflittuale con il briefing dell’intelligence. In teoria dovrebbe essere il suo primo appuntamento quotidiano con il mondo, come facevano tutti i suoi predecessori al mattino presto. In pratica lui vuole soltanto due briefing alla settimana e non prima delle dieci. E come scrive il suo ex consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton, durante i briefing parla molto più lui di quelli che sono incaricati di presentargli le informazioni, perché ha sempre questa tentazione di mettersi al centro della scena. Poiché Trump si annoia facilmente, l’ufficio che prepara il briefing si sforza di condensare tutte le informazioni nel modo più digeribile possibile, spesso con infografiche e immagini. Insomma, non sappiamo cosa sia successo il 27 febbraio quando hanno detto a Trump che i russi mettevano taglie sulla testa dei soldati americani in Afghanistan, ma è necessario ricordare che questa Casa Bianca è disfunzionale.
L’Amministrazione per difendersi dice che le informazioni a proposito di questo caso non sono ancora sicure al cento per cento, ci sono versioni contrastanti dentro la comunità dell’intelligence – ed è vero. La Nsa, l’agenzia americana che intercetta le comunicazioni e viola i segreti informatici, non è d’accordo sulla solidità dei dati raccolti dalle altre agenzie d’intelligence. E così si è creato uno stallo perfetto. Gli antitrumpiani hanno a disposizione una storia impressionante per accusare il loro presidente di essere un leader orrendo e indegno per il Paese – ma è una cosa della quale sono persuasi già da tempo, non c’era la necessità di nuove storie. I trumpiani hanno un motivo in più per credere che ci sia una campagna per buttare giù il loro presidente con mezzi che non sono più politici: l’ennesima campagna orchestrata dalla stampa e del resto tutte le fonti per ora sono anonime e questo fa crescere i loro sospetti. 
Una storia così a quattro mesi dalle elezioni ha tutta l’apparenza di un colpo molto duro inferto su commissione, per abbassare l’indice di approvazione di un presidente che è già messo male (lo dice lui stesso, e i sondaggi gli sono molto sfavorevoli a questo punto. Se le elezioni fossero oggi vincerebbe Joe Biden a valanga. Ma le elezioni non sono oggi).
Sullo sfondo, e soltanto sullo sfondo purtroppo, resta la questione afghana. Pare che i russi si siano rivolti per questi attacchi su commissione a frange minori dei talebani, fazioni che combattono per opportunismo e si vendono, e spesso sono impegnate in attività criminali. Iran e Pakistan controllano altre correnti dei talebani e questo fa capire quanto sia frammentata e caotica la situazione. Tutti assieme, i talebani si preparano a diventare la forza più importante del Paese dopo il ritiro americano, che potrebbe essere imminente. Trump potrebbe ordinare ai soldati americani di rientrare a casa da qui a novembre e lasciare il governo afghano a cavarsela da solo contro nemici irriducibili. I suoi consiglieri gli suggeriscono di lasciare nel Paese un numero piccolo di militari, che loro chiamano «una piattaforma antiterrorismo», per tenere sotto controllo i gruppi terroristici (che infestano l’area, da al Qaeda allo Stato islamico) e per sorvegliare cosa succede oltre i confini, nei due paesi vicini: il Pakistan, che già dispone di armi nucleari, e l’Iran, che le vorrebbe.
Lo scandalo di questi giorni aumenterà ancora di più il suo disinteresse per l’Afghanistan, proprio quando servirebbe il massimo della capacità di giudizio. Il presidente americano odia quel dossier, perché la vede con l’occhio di un uomo d’affari, di un utilitarista, e non vede nulla di buono. Che cosa ne otteniamo? chiede sempre ai suoi. E anche se vincessimo, cosa ce ne viene? Ha anche un’altra paura: quella che il suo nome sia associato alla guerra afghana e alla sconfitta. «Non voglio che questa guerra sia la mia guerra», diceva ai suoi nello Studio Ovale, secondo il libro di Bolton (che è una miniera di dettagli). Il capo del Pentagono, Jim Mattis, gli rispondeva: «Questa guerra è diventata tua nel momento in cui sei stato eletto».