Da Cosa nasce (e muore) Cosa?

by Claudia

Storie di mafia – La sensazione è che Cosa Nostra attraversi la peggiore crisi della sua storia quasi millenaria: non ha più uomini, non ha più quattrini, non ha più influenza

Un bel rompicapo per magistrati e forze dell’ordine: i dieci boss di spicco e i sessanta picciotti ingabbiati in tre settimane significano che Cosa Nostra è sempre vispa e pronta a reinventarsi dopo ogni retata o, al contrario, significano che l’organizzazione boccheggia, che i suoi tentativi di riprendere il controllo del territorio si scontrano con la volontà di parecchi commercianti, imprenditori, professionisti di non sottostare più al «pizzo», all’estorsione base di ogni intrapresa mafiosa?
Tra gli ammanettati ci sono i vertici di due mandamenti di antico lignaggio, Tommaso Natale e San Lorenzo; c’è Giulio Caporrimo, al terzo arresto in tre anni, che per scongiurare le microspie degli investigatori s’incontrava con il suo vice Nunzio Serio sul gommone in mezzo al mare; ci sono Francesco Paolo Liga e Vincenzo Taormina, il cui giro di affari e di conoscenze arriva addirittura a Carminati e all’ormai famoso «mondo di mezzo» della malavita romana; c’è Mico Farinella, il vecchio capofamiglia di San Mauro Castelverde, fedelissimo di Riina, scarcerato un anno addietro dopo un quarto di secolo in isolamento; c’è l’avvocato Raffaele Bevilacqua, ex dominus della democrazia cristiana siciliana, anch’egli libero da pochi mesi per motivi di salute, che fedelissimo lo era a Provenzano; c’è Mariano Asaro al vertice delle cosche trapanesi, indicato da diversi collaboratori di giustizia come l’omicida, nel 1983, del magistrato Giangiacomo Ciaccio Montalto: in libertà dopo 25 anni di carcere duro, lo riverivano in tanti, compreso l’ex deputato regionale del Pd, Paolo Ruggirello.
Tutti traditi dalle denunce delle loro vittime e più ancora dalla morsa di carabinieri e polizia, che spesso hanno giocato d’anticipo. Tutti rassegnati a un piccolo cabotaggio quotidiano, lontani dai grandi traffici internazionali di un tempo quando c’erano i corleonesi o addirittura le «famiglie» storiche dei Bontate e degli Inzerillo. E il desiderio di tanti di tornare al passato si è dovuto limitare alle cerimonie di affiliazione con quel rituale barbaro che tira in mezzo pure santa Rosalia o addirittura al ripristino del bacio in bocca, in un caso senza neppure togliersi la mascherina anti Covid 19, era il caso di Ruggirello con Asaro. L’avvocato Bevilacqua aveva, invece, preteso un più autorevole bacio della mano da quanti erano andati a ossequiarlo appena fuori dal penitenziario.
La sensazione è che Cosa Nostra attraversi la peggiore crisi della sua storia quasi millenaria. Non ha uomini, non ha quattrini, non ha influenza. I reparti speciali di polizia, carabinieri, guardia di finanza; i droni e le microspie; i collaboratori di giustizia e il patrimonio di conoscenze acquisito negli ultimi trent’anni, hanno stroncato il 90 per cento delle attività dei mafiosi. Le mani sugli appalti adesso le allungano i politici, non più i picciotti. D’altronde, non c’è dinastia che abbia scampato condanne giudiziarie e lunghe pene detentive. Continua a resistere la latitanza del solo Matteo Messina Denaro, attorno al quale è stato creato il vuoto al punto tale che nei sussurri della squadra incaricata di dargli la caccia si comincia a valutare l’ipotesi che sia morto e che il suo nome venga usato da quanti provano a sfruttarne lo spessore criminale prima di finire a loro volta in carcere.
Nell’ultimo repulisti delle forze dell’ordine sono finiti impigliati anche gli eredi degli Inzerillo, degli Spatola, dei Mannino, dei Di Maggio costretti a fuggire tra l’81 e l’82 per salvarsi dalla carneficina dei corleonesi. Le squadre della morte di Riina e Provenzano colpirono con precisione chirurgica quanti si vantavano di volerli rispedire a calci in culo a Corleone per fare ciò che avevano sempre fatto, i «viddani». Venne definita la seconda guerra di mafia, in realtà fu un annientamento sociale: la nobiltà di Cosa Nostra, arricchitasi a dismisura con il traffico della droga, sterminata dai poveracci di Cosa Nostra, che fin lì avevano vissuto d’espedienti. Gli uomini della campagna, «i viddani» per l’appunto, all’assalto della città, zeppa di quattrini e di opportunità. Un rapporto di forze sproporzionato, 1000 contro 50, che non offriva alcuno spiraglio a quelli sotto attacco.
Nell’81 in poco più di due mesi furono uccisi Stefano Bontate, il numero uno, il grande massone riverito e temuto nei salotti del vecchio patriziato e della nuova borghesia, capace di tenere in mano la politica, di assoggettare deputati e senatori, di minacciare persino Giulio Andreotti. Dopo di lui, toccò al suo principale alleato Totò Inzerillo esponente di un clan storico, quello di Passo di Rigano, da dov’era incominciata un secolo prima l’emigrazione mafiosa negli Stati Uniti. A seguire fratelli, zii, capibastoni, semplici soldati in un crescendo di barbarie e di ferocia.
Al figlio quindicenne di Totò, Giuseppe, prima di strangolarlo amputarono il braccio destro perché aveva giurato di volersi vendicare degli assassini del padre. Pietro Inzerillo, uno dei numerosi fratelli di Totò, fu rinvenuto decapitato dentro il bagagliaio di un’auto a Mont Laurel, nel New Jersey. Gli avevano infilato una banconota da 5 dollari in bocca e ricoperto di monetine i genitali. Sparì anche lo «zio americano» Antonino: secondo alcuni collaboratori di giustizia, lui e Pietro furono eliminati dai loro congiunti quali vittime sacrificali per bloccare il massacro dei palermitani.
A quel punto si mosse Paul Castellano il capo dei capi di Cosa Nostra americana, espressione delle cinque «famiglie» newyorkesi, cugino degli Inzerillo, che erano anche cugini dei riveriti Gambino, dai cui ranghi proveniva il sessantaseienne «big Paul». Fu costretto a umiliarsi mandando i suoi ambasciatori a Palermo per riconoscere che ormai «comandava Corleone» e con i suoi boss, cioè Riina e Provenzano, egli avrebbe trattato affari e decisioni. In cambio ottenne che quanti erano ancora in vita degli Inzerillo e dei loro congiunti, gli Spatola, i Di Maggio, i Mannino, potessero raggiungere gli Stati Uniti. Con l’impegno esplicito di non fare più ritorno in Sicilia. Nel gergo dei picciotti divennero «gli scappati».
A Palermo, per loro espressa volontà, rimasero la moglie di Totò, Filippa Spatola, e il figlio minore Giovanni, di soli sei anni. L’accordo durò fino al 1997 allorché Provenzano, ormai sicuro del comando con Riina e suoi seppelliti dagli ergastoli, concesse al fratello di Totò Inzerillo, Franco, espulso dagli Stati Uniti, di rientrare purché facesse il pensionato.
Il ritorno degli «scappati» si è intensificato con il nuovo secolo. Venne mandato in avanscoperta Sarino Inzerillo, dietro il quale si stagliava l’imponente sagoma di Frak Calì, detto «Franky boy», cognato di un Inzerillo e soprattutto in ottimi rapporti con John Gotti, il successore di Castellano. Fu lui a trattare per conto degli americani e a benedire l’investitura di Giovanni, il figlio di Totò, scortandolo nel giro delle presentazioni americane. Una tournèe, che aumentò i sospetti degli irriducibili nemici, quelli che avevano partecipato al massacro dell’81 e per i quali ciascuno dei sopravvissuti dell’epoca continuava a essere soltanto un nemico da stendere.
Ma gl’Inzerillo, i Di Maggio, gli Spatola, i Mannino non solevano solo rientrare, volevano anche investire in Sicilia la montagna di dollari accumulata negli Stati Uniti. Per le «famiglie» palermitane in crisi economica da anni rappresentò un bel rompicapo. Accettare o rifiutare? I Lo Piccolo padre e figlio, all’epoca i boss emergenti, si dichiararono favorevoli a riabbracciare «gli scappati» e soprattutto a usare le loro sostanze. Di avviso diverso gli antichi complici palermitani dei corleonesi, Nino Rotolo, Nino Cinà, Franco Bonura, timorosi di tramutarsi nell’obiettivo di una vendetta. L’arresto di Provenzano nel 2006 produsse una campagna di morte bloccata dall’intervento immediato di carabinieri e polizia, che già tenevano sotto osservazione molti degli arrestati.
Nell’ultimo decennio le attività degli Inzerillo e dei cugini si sono intensificate. Oltre agli affari, hanno provato a scalare il vertice della cupola, quella che in gergo si chiama la «commissione provinciale», espressione dei 15 mandamenti (8 in città e 7 in provincia), composti da 81 «famiglie» (32 in città e 49 in provincia). L’ultimo a presiederla fu Riina, mentre Provenzano mai venne investito ufficialmente del ruolo, che risulta tuttora non coperto. In una riunione di alcuni capi mandamento a Catania nel 2016 non fu possibile trovare l’intesa.
L’uccisione poi negli Stati Uniti di «Franky boy» Calì ha vieppiù ingarbugliato la composizione di una nuova struttura e le conseguenti nomine. A detta degl’inquirenti, la ricerca di un modello al passo con i tempi e la designazione di un vertice erano anche la causa dei frequenti incontri di Franco Inzerillo con l’ottantenne gioielliere Settimo Mineo, indicato quale possibile erede di Riina. Ma le sue ambizioni sono state cancellate dallo scattare delle manette. Anche le file degl’Inzerillo e dei loro parenti sono state decimate da inchieste e ingabbiamenti. I proficui business con New York smantellati, il mandamento di Passo di Rigano messo in ginocchio.
I verbali degli interrogatori raccontano di arrestati che sostengono di attraversare una profonda crisi mistica, di aver cambiato vita, di essere pecorelle smarrite in cerca del sentiero. Tutto pur di sfuggire alle proprie responsabilità. E torna in mente un’antica previsione di Falcone: nelle umane vicende tutto ha un inizio e una fine e sarà così anche per la mafia.