Nuove tensioni fra governo e oromo

by Claudia

Etiopia – Addis Abeba, la capitale, e l’Oromia, Stato che la circonda, sono stati teatro di grandi proteste dopo l’uccisione di un famoso cantante. Un rigurgito di violenza mai visto dopo l’insediamento di Abiy Ahmed

Tutti noi abbiamo scritto peana in suo onore, quando nell’ottobre scorso è stato insignito del Premio Nobel per la pace. Ma ecco che non è passato un anno e Abiy Ahmed Ali, primo ministro d’Etiopia, si trova al centro di due guerre: l’una civile, e in atto; l’altra per ora solo in potenza, ma internazionale, e terribile se mai dovesse davvero precipitare in scontro aperto. Abiy Ahmed è un esperto in risoluzione di conflitti: ha studiato questo argomento fino a conseguire in materia un dottorato di ricerca. È salito al potere aprendo le carceri, dialogando con gli oppositori che i suoi predecessori avevano imprigionato, restituendo libertà ai media e stringendo la mano ai tradizionali nemici del suo Paese.
Tutto questo, a quanto pare, non è bastato. Il premier etiopico rischia di diventare, in un contesto totalmente diverso, una specie di Aung San Suu Kyi africano. Come l’eroina della libertà birmana – Nobel per la pace 1991, diventata leader del suo Paese e oggi universalmente accusata per la feroce persecuzione della minoranza Rohingya – il grande prestigio internazionale di cui gode potrebbe non resistere alla dura prova dei fatti.
Il problema storico dell’Etiopia, colosso africano di oltre 100 milioni di abitanti, è la convivenza tra le sue diverse nazionalità. La vastità di questo enorme Paese, grande quasi quattro volte l’Italia, l’estrema varietà geografica, la difficoltà delle comunicazioni, le complesse e plurisecolari vicende storiche ne hanno esasperato le differenze, rendendo sempre difficile governarlo.
Tradizionalmente, il trono imperiale (ma non necessariamente la famiglia dell’imperatore o della sua consorte) era espressione dell’etnia amhara; dopo il suo abbattimento e altri 17 anni di regime militar-comunista, l’Etiopia cadde nelle mani dei guerriglieri del Tigrè, arido e impervio territorio del nord, e gli equilibri del potere ne risultarono sovvertiti. Invece di essere negata, conculcata, la «questione nazionale» fu riconosciuta, discussa e divenne il criterio sulla base del quale si tentò di riorganizzare lo Stato.
Ma l’esito non è stato molto migliore, e la ragione è semplice. La nazionalità più numerosa della Repubblica Federale Democratica d’Etiopia, gli oromo, circa un terzo della popolazione totale, lamenta da sempre, e tuttora, la propria marginalizzazione e l’esclusione dal potere. Sono decenni che gli oromo si battono per vedere riconosciute le loro rivendicazioni – e che i nemici dell’Etiopia soffiano su questo scontento. Ed è un paradosso non piccolo che la protesta oromo si tramuti in rivolta ai tempi di un primo ministro che è figlio di un oromo di religione musulmana (e di una amhara di fede cristiano-ortodossa), e che ha concesso ampia espressione alla contestazione.
L’episodio che ha scatenato i sanguinosi scontri di luglio è stato l’uccisione, il 29 giugno, di Hachalu Hundessa, cantautore le cui canzoni sono considerate «la colonna sonora della rivoluzione oromo». Amatissimo, popolarissimo, con un repertorio il cui primo nucleo fu composto nei cinque anni in cui il suo autore, all’epoca appena diciassettenne, era in prigionia, e poi cantato da decine di migliaia di bocche, Hachalu è stato abbattuto in strada ad Addis Abeba da killer non identificati. Per gli oromo era una bandiera e quella bandiera è stata immediatamente impugnata dalle frange più radicali della protesta. Ci sono state manifestazioni, uccisioni, scontri a fuoco; particolarmente cruento il giorno dei funerali, giovedì 2 luglio. Il numero delle vittime è incerto: i primi bilanci sembrano ora ridimensionati, i morti sarebbero comunque un centinaio. Oltre mille gli arresti; la tensione nella capitale e tra gli oromo resta altissima. Parlare di guerra civile per l’intero Paese è certamente eccessivo; ma la questione oromo è riesplosa in maniera cruenta e il governo di Abiy Ahmed appare per il momento incapace di trovare una soluzione.
Più elusiva, ma potenzialmente ben più allarmante, è la crisi internazionale che oppone l’Etiopia a Egitto e Sudan. L’oggetto della discordia è la gigantesca diga sul ramo etiopico del Nilo, il Nilo Azzurro. Il colossale progetto fu voluto in tempi in cui Abiy Ahmed era ancora molto lontano dal potere; è stato realizzato dall’impresa italiana Salini, non nuova a simili imprese d’ingegneria in giro per il mondo: e oggi è pronto a entrare in funzione. Fin dall’inizio la presenza della diga è stata motivo d’allarme per i Paesi che si trovano a valle lungo il corso del grande fiume africano e la cui sopravvivenza letteralmente dipende dalle acque del Nilo. Sotto passati regimi, l’Egitto aveva dichiarato di vedere in quello sbarramento una giusta causa per la quale entrare in guerra. Uno dei primi gesti compiuti dal nuovo premier etiopico, poche settimane dopo essere asceso al potere nell’aprile di due anni fa, fu di volare al Cairo per incontrare il presidente al-Sisi e dargli le sue rassicurazioni: la gestione della diga sarebbe stata concordata attraverso un negoziato.
Le cose, però, si sono rivelate molto più complesse del previsto. La commissione tripartita Etiopia-Egitto-Sudan, alla quale partecipano anche i capi dei rispettivi Servizi di sicurezza, si è riunita più volte; molti aspetti sono stati risolti, altri, importanti, restano insoluti. Gli argomenti sono molto tecnici e complicati. Nel frattempo, la stagione delle piogge 2020 è cominciata, il Nilo Azzurro va ingrossandosi e il gigantesco invaso della diga ha iniziato, lentamente, a riempirsi. È come una clessidra che misura il tempo mancante al primo giorno della prossima guerra.