Il colore della pelle

by Claudia

Tra aspetti biologici, antropologici e culturali, un lungo e leggibilissimo saggio di Nina G. Jablonski sul significato del colore della pelle

«La valle del Nilo è stata un’autostrada di interazioni umane. Grazie all’orientamento nord-sud e alla notevole lunghezza (6600 chilometri) – estendendosi per quindici gradi di latitudine e attraversando zone con irraggiamento UV da intenso a moderato – il fiume e la sua valle unirono popoli con tonalità della pelle visibilmente diverse che si erano adattati a regimi solari nettamente diversi».

Non capita spesso di legge libri così luminosi, che rappresentano così vividamente la messa in scena della lettura come una specie di sereno continuum, che fa arrivare in un battibaleno in capo a quasi duecentottanta pagine con sforzi minimi e grande profitto. Questo Colore vivo. Il significato biologico e sociale del colore della pelle dell’antropologa americana Nina G. Jablonski è di questo tipo, ma è anche un libro che divide; non tanto per i contenuti e i temi, che anzi paiono inequivocabili, quanto per le prospettive di approccio: dove la sezione dedicata agli aspetti biologici sembra appartenere a tutt’altra comunità di lettura rispetto all’ampia seconda parte, sulla società, le sue interpretazioni, i suoi simboli.

Eppure anche la biologia ha ampia parte nell’avvicinamento a uno studio completo sulle cause e le implicazioni del colore della pelle. Il volume è organizzato in un testo «autoriale» di lunga narrazione cui si accompagnano immagini e box di approfondimento sui fatti e sugli aspetti che succede via via di incontrare. Così, ci si può attardare un po’ su una scheda dedicata alla rassegna storica delle teorie sui benefici della pigmentazione scura: la quale, nelle ipotesi anche recenti, «si era evoluta perché forniva un mascheramento migliore nelle foreste buie», oppure «perché rinforzava il sistema immunitario contro infezioni tropicali o parassiti». È molta, insomma, la paccottiglia pseudoscientifica giunta con agio fino alla seconda metà dello scorso secolo.

Poi viene, come detto, l’ampio discorso dei risvolti sociali e antropologici del colore della pelle, con la spiegazione di come tratti specifici salienti del fisico di una persona diventino con grande facilità motore degli stereotipi che ben conosciamo. Le persone devono attendere tre anni da quando sono nate per riconoscere nel prossimo un colore della pelle in un qualche modo significativo; e ancora devono aspettare di essere immerse in un sistema comunicativo più maturo per associare questa caratteristica a un qualsivoglia giudizio culturale.

Da qualche anno la neurologia ha sviluppato tecniche che ci permettono di vedere come funziona il cervello di fronte a esperienze cognitive particolari e una generosa parte del libro della Jablonski è appunto dedicata a quali parti della mente si «accendono» in soggetti interessati da pregiudizi razziali, tanto più se posti di fronte a immagini di qualcuno con il colore della pelle diverso.

In mezzo agli infiniti spunti che rendono la lettura di questo Colore vivo un vero e proprio motivo di gratificazione, ci sono un paio di memorabilia originali e generali. Per esempio, la diffusa definizione dello stereotipo in termini di economicità, semplificazione e, in ultima analisi, comodità; «gli stereotipi sono pratici perché permettono di cavarsela senza pensare troppo agli altri e prestare attenzione a una persona o una situazione». Oppure, dalle parti di una discussione sull’«effetto Obama» a partire dal 2008, una cosa che molti di noi hanno forse già più volte pensato: il ruolo attenuante sui pregiudizi di bontà o cattiveria generato dal contatto diretto con l’oggetto del pregiudizio stesso: «l’attivazione della classificazione in categorie è facile quando si incontrano etichette verbali, più difficile di fronte a fotografie, difficilissima quando si incontrano persone reali». Libro fuori dall’ordinario. Anche per affrontare i tempi che corrono.