Sono molti i segnali che preoccupano il presidente nella corsa alla sua rielezione. A iniziare dall’evento del 27 agosto di Jacksonville in Florida in occasione del discorso finale dell’accettazione: che a causa del Covid sta subendo un cambiamento di programma rispetto ai progetti originari
La versione dominante sui media descrive un’America assediata dal Coronavirus, in ginocchio, con un governo incapace e destinato ad essere travolto da un’ondata di indignazione per la cattiva gestione della pandemia. I medesimi giornali e tv però fino a poche settimane fa descrivevano la stessa America assediata dalle proteste contro il razzismo della polizia, con un governo in mano a un suprematista bianco e destinato ad essere travolto da un’ondata di indignazione per la cattiva gestione della morte di George Floyd. Bisogna dunque imparare a discernere lo «hype», l’iperbole e l’esagerazione propagandistica di media molto schierati (se pensate che io stia esagerando, le dimissioni a catena tra gli opinionisti del «New York Times» confermano quanto quel giornale sia diventato un organo di battaglia «resistenziale», dove non ci si sforza più di cercare un equilibrio).
È utile ricordare, per esempio, che l’impatto della pandemia non si misura sui numeri assoluti; in proporzione alla sua popolazione, il bilancio di vittime negli Stati Uniti finora rimane inferiore a quelli di Regno Unito, Italia, Francia, Spagna, Belgio. Inoltre una parte delle decisioni su come arginare il contagio – i lockdown o confinamenti – nel federalismo americano sono di competenza dei governatori. E il governatore democratico di New York ebbe risultati molto peggiori di qualsiasi altro, a marzo-aprile; così come oggi c’è un governatore di sinistra in California che non sembra cavarsela meglio dei suoi colleghi repubblicani nel Sud. Resta vero però che tira una brutta aria in termini di contagi e risalita dei decessi; e questo ha un riflesso politico evidente sul presidente degli Stati Uniti nonché sulle sue chance di rielezione.
Brad Parscale, il capo della campagna elettorale di Donald Trump, è l’ultimo «declassato» eccellente. È brutto segno quando l’organizzazione di una campagna viene rimescolata a poca distanza dal voto: e ormai mancano poco più di 100 giorni all’elezione presidenziale. Parscale non viene proprio licenziato ma relegato ad occuparsi solo di tecnologie digitali. L’ex capo paga per uno stile personale controverso (troppa visibilità, un peccato che Trump perdona solo a se stesso), e soprattutto gli viene imputato il flop di Tulsa. Alla vigilia di quel comizio del 20 giugno in Oklahoma, Parscale si era vantato di aver ricevuto un milione di richieste, poi gli spalti erano semivuoti.
Il flop di Tulsa è solo uno dei segnali che preoccupano Trump. La sua ira può scaricarsi su Parscale ma tutti sanno quel che ha ribadito il genero Jared Kushner: «È Donald Trump il vero capo della campagna Trump». La ricerca di capri espiatori quindi non aggredisce il problema di fondo. Il presidente continua a perdere quota nei sondaggi. Ormai tutte le maggiori indagini demoscopiche gli danno uno svantaggio di almeno dieci punti rispetto al candidato democratico Joe Biden. In epoca contemporanea si ricordano solo due presidenti in carica che affrontarono un percorso così difficile per la rielezione: Lyndon Johnson nel 1968 (che in effetti rinunciò a candidarsi per un secondo mandato) e Jimmy Carter nel 1980 (perse contro Ronald Reagan).
Inoltre è sempre Biden in testa in alcuni Stati-chiave come la Pennsylvania. Se venisse confermata la tradizionale distribuzione degli altri collegi elettorali, a Biden basterebbe riconquistare tre Stati «operai» come Pennsylvania, Michigan e Ohio, e la Casa Bianca sarebbe sua. Altro segnale inquietante per Trump è un’inizio di erosione di consensi tra i bianchi anziani, uno degli zoccoli duri del suo elettorato. Potrebbe essere un’altra «illusione ottica», un clamoroso errore dei sondaggi come nel 2016? L’esperto di analisi demoscopiche del «New York Times», Nate Cohn, osserva che a quest’epoca quattro anni fa il vantaggio medio di Hillary Clinton nei sondaggi era di tre punti inferiore, quindi Biden ha un margine superiore anche per assorbire l’eventuale errore.
Nel 2016 inoltre era più alta la percentuale di indecisi. E i sondaggisti dicono di aver fatto del loro meglio per includere nei campioni intervistati più elettori senza laurea, la fascia che fu protagonista della grande sorpresa in favore di Trump.
L’altra speranza per il presidente sta nell’unica domanda dove ancora vince lui contro Biden. È quando nei sondaggi si chiede chi sia più efficace nel governare l’economia: su questo Trump conserva un vantaggio. Questo spiega la sua insistenza nel premere per una riapertura delle scuole dopo le vacanze, e per tutto ciò che può accelerare una ripresa economica. Su questo fronte i segnali sono ambivalenti. Le vendite al dettaglio sono aumentate del 7,5% a giugno, a conferma che un recupero dei consumi è iniziato. D’altra parte la scorsa settimana sono state presentate 1,3 milioni di domande per sussidi di disoccupazione, un indicatore che la situazione sul mercato del lavoro continua ad essere drammatica.
Gli sforzi per una riapertura accelerata di tutte le attività si scontrano anche con la dinamica della pandemia. Tra gli Stati Usa che subiscono la più forte impennata dei contagi figurano il Texas e la Florida, oltre a California e Arizona. Il Texas, tradizionale serbatoio di voti repubblicano, doveva essere una «vetrina» dei governatori di destra che hanno abolito rapidamente il lockdown, ma è costretto a fare marcia indietro. La Florida, altro Stato-chiave che votò Trump nel 2016 ma aveva votato per Barack Obama, è la sede designata per una parte degli eventi della convention. È a Jacksonville in Florida che Trump vuole tenere un evento di massa, il discorso finale dell’accettazione il 27 agosto. È già cominciata una cauta ritirata rispetto ai progetti originari, per ridurre l’affluenza di delegati e il rischio di contagio. Il piano di Trump prevede di condurre gli ultimi cento giorni come una «campagna da opposizione», incollando Biden all’establishment; molti americani però pensano che sia lui a dover rispondere dello stato della nazione.
La centralità dell’economia spiega l’importanza del braccio di ferro in corso sulla nuova manovra anti-crisi: la terza o la quarta o forse la quinta (abbiamo tutti perso il conto). I democratici che hanno la maggioranza alla Camera vogliono che contenga un rinnovo degli assegni ad personam da 1.200 dollari mensili, anche per ovviare al fatto che le indennità di disoccupazione si esauriscono il 31 luglio. I repubblicani che hanno la maggioranza al Senato sostengono che questi assegni, soprattutto se cumulati con le indennità versate dai singoli Stati ai senza lavoro, creano un incentivo a rimanere inattivi.
Purtroppo questo è vero, almeno per una parte della popolazione: è l’ennesima conferma di quanto fossero bassi i salari di tanti lavoratori americani, anche al termine di un decennio di crescita. È vero che molti ristoratori, albergatori, esercizi pubblici, piccole imprese, anche se sono pronti a riaprire lo fanno offrendo salari così bassi che risultano inferiori al sussidio pubblico. Qualunque cosa decidano il Congresso e la Casa Bianca, la situazione sociale è drammatica e peserà sul voto del 3 novembre.
Un altro tema è la sanità: molti perdendo il posto di lavoro hanno perso anche l’assistenza medica; gli sforzi di Trump e dei repubblicani per abolire la riforma sanitaria di Obama dovrebbero essere degli argomenti solidi per Biden.
Quest’ultimo continua a fare una campagna elettorale «semi-invisibile», e con buoni risultati. Convinto che quest’elezione sarà un referendum su Trump, ha deciso che meno si espone meglio è. Questo gli ha anche consentito di assorbire «l’ondata anti-razzista», dove le frange più militanti come Black Lives Matter volevano imporgli la scelta di una vice afroamericana e radicale. Il boato delle piazze si è già placato, e i sondaggi dicono che gli elettori democratici non vogliono una scelta «etnica» come vice. Cioè: non vogliono che sia il colore il criterio decisivo.
La saggezza convenzionale sostiene che in genere la designazione di un candidato vicepresidente appassiona gli addetti ai lavori ma non sposta voti, per l’elettorato conta il numero uno. Stavolta potrebbe essere diverso: Biden, se vince, nell’Inauguration Day del gennaio 2021 avrà compiuto 78 anni e sarà il più vecchio presidente della storia al momento di assumere la carica. In quest’epoca di virus e di «soggetti a rischio», forse le elettrici e gli elettori guarderanno con più attenzione la numero due del ticket democratico. Meglio sia rassicurante, solida, dotata di esperienza, e che una maggioranza di americani se la possa immaginare tranquillamente nello Studio Ovale.
Un ultimo scenario va evocato fin d’ora. Anche questo incrocia la politica con la pandemia. Riguarda il rischio che il 3 novembre l’elezione sia un caos. Se il livello dei contagi rimarrà elevato, la ragione dovrebbe spingere verso un ricorso massiccio al voto per corrispondenza. Ma i primi esperimenti nel corso di alcune primarie – per esempio in Georgia – sono stati disastrosi. Gestire un voto per corrispondenza su scala nazionale con 150 milioni di elettori è un’operazione alla quale gli Stati Uniti non sono preparati. Inoltre Trump ha già messo le mani avanti denunciando il voto per corrispondenza come un espediente della sinistra per far votare gli stranieri, e truccare il risultato con vasti brogli. È una falsità, ma precostituisce un argomento per moltiplicare ricorsi e cercare di invalidare le votazioni, qualora lui perda. Ci stiamo ormai abituando a un’America inefficiente, dove tante cose non funzionano come dovrebbero o non funzionano affatto. Il prossimo test sarà il 3 novembre.