Iran sotto attacco

by Claudia

Campagna di sabotaggi – Negli ultimi tempi diverse infrastrutture sensibili tra cui l’impianto nucleare di Natanz sono state fatte saltare in aria: perché proprio ora? E ad opera di chi? Secondo molti dietro c’è il Mossad

Per ora la campagna di sabotaggi in Iran si è fermata e da due settimane non ci sono nuove notizie di esplosioni e di incendi. A essere precisi, non sappiamo ancora adesso quanto fosse estesa questa campagna di sabotaggi e se si è davvero fermata del tutto: sappiamo soltanto che il primo luglio un centro di ricerca del programma nucleare a Natanz è stato danneggiato da un’esplosione fortissima e che nello stesso periodo una sequenza di disgrazie senza spiegazione ha colpito con precisione alcuni luoghi di importanza strategica. Centrali elettriche. Porti. Basi militari dei Guardiani della rivoluzione. Industrie. Impianti petrolchimici. Qualcuno in Iran tra la fine di giugno e le prime due settimane di luglio ha danneggiato lo stesso tipo di siti che in una guerra convenzionale sarebbero centrati dai bombardieri durante la prima settimana. Con una grande, ovvia differenza: è stato tutto molto più discreto e l’opinione pubblica mondiale se ne è a malapena accorta. 
Il 26 giugno è saltata in aria una base vicino Teheran dove i militari iraniani fanno ricerche sul propellente liquido dei missili – il propellente liquido allunga il raggio d’azione dei missili e sarebbe un vantaggio importante in caso di guerra contro nemici come Israele. Il primo giorno di luglio c’è stata l’esplosione già citata all’interno del centro del programma nucleare a Natanz – che è strategico per motivi ovvi – e persino il governo iraniano che di solito tende a coprire queste notizie ha ammesso che si tratta di un attacco e fermerà le ricerche per molti mesi. Il 3 e il 4 luglio due centrali elettriche hanno preso fuoco. Il 7 luglio ha preso fuoco una fabbrica di alluminio. Il 10 luglio gli abitanti della capitale Teheran hanno sentito un’altra serie di esplosioni fortissime, dopo che il 26 giugno avevano visto il cielo notturno illuminarsi per l’esplosione nella base dei missili. Anche in questo caso il suono delle esplosioni veniva da un’area militare. Il 12 luglio ha preso fuoco un impianto petrolchimico nel Khuzestan e c’è stata almeno un’altra esplosione a Teheran. Il 15 luglio hanno preso fuoco sette navi alla fonda nel porto di Busher. 
Possiamo sforzarci di trovare una spiegazione accidentale. L’Iran è un paese che soffre un gap tecnologico e di manutenzione per colpa delle sanzioni internazionali, l’estate è torrida e il regime ha già dimostrato di non sapere gestire le cose che ha – basta ricordare l’aereo di linea con centinaia di passeggeri a bordo buttato giù per errore con due missili a gennaio. È il contesto ideale per incendi e malfunzionamenti. Gli incidenti succedono e parliamo di infrastrutture vecchie e tenute male. 
E tuttavia ci sono ragioni solide per credere il contrario, quindi a una campagna di sabotaggio. Mettiamole in fila. Le prove fattuali: l’esplosione del centro di Natanz è stata rivendicata in anticipo da un gruppo che si fa chiamare «I ghepardi della patria». È un nome che non è mai stato sentito prima, ma è qualcosa di più di una fantasia, hanno mandato a un giornalista della Bbc la notizia dell’attacco in anticipo e le immagini dal sito provano che in effetti qualcuno aveva messo una bomba dentro l’edificio. Il movente: l’Iran in questo momento è il bersaglio naturale di una campagna di sabotaggi.
Da quando l’Amministrazione Trump si è ritirata dal patto del luglio 2015 – che garantiva il congelamento del programma di ricerca atomica – il regime non si sente più vincolato e ha annunciato la ripresa dell’arricchimento dell’uranio. Ma ci sono molti governi pronti a tutto per impedire che l’Iran arrivi a produrre un’arma atomica e cambi per sempre gli equilibri nella regione. Il primo è quello di Israele, ma anche altri – come gli Stati Uniti e i regni del Golfo – sono della partita. E quindi Teheran oggi è nel mezzo di una guerra non dichiarata, vale tutto – operazioni clandestine, campagne mediatiche ostili, scontri per procura in altri paesi, attacchi informatici – basta non arrivare a un conflitto aperto. L’opportunità materiale: il regime iraniano in questi anni si è fatto molti nemici interni, tra le minoranze represse (come i curdi e gli arabi) e tra chi vuole la fine del potere dei predicatori sciiti che dal 1979 hanno il controllo del Paese. Con questo livello di malcontento, arruolare sabotatori che colpiscano le infrastrutture non è quello che si direbbe un compito impossibile. 
Se queste considerazioni non bastassero, c’è da contare il senso generale di debolezza che logora la teocrazia iraniana. Il regime ha ignorato le dimensioni dell’epidemia da Covid-19, salvo poi ammettere che più di un terzo della popolazione è stato contagiato. Non ha più risorse a causa delle sanzioni, ma si intestardisce nel finanziamento di campagne militari all’estero, dalla Siria allo Yemen, che i cittadini vedono malissimo. È alle prese con una crisi durissima dell’economia, la valuta nazionale perde valore di mese in mese e distrugge il potere d’acquisto degli iraniani. È plausibile che questa debolezza incoraggi i nemici, esterni e interni. 
Infine, ci sono da considerare i precedenti. Questa non sarebbe la prima campagna di sabotaggio che avviene in Iran in tempi recenti. Tutti ricordano gli effetti devastanti del virus Stuxnet, che gli israeliani riuscirono a installare nel 2010 dentro i laboratori di ricerca iraniani che portavano avanti il programma atomico. Il virus faceva impazzire le centrifughe che arricchiscono l’uranio e le faceva girare a un ritmo che non potevano reggere. Il risultato, per lo sbigottimento dei tecnici iraniani, era che le centrifughe si autodistruggevano.
E c’era anche una parallela campagna di omicidi mirati contro gli scienziati che lavoravano al programma e che talvolta erano assassinati con azioni spregiudicate in pieno giorno – per esempio da sicari in motocicletta che accostavano nel traffico e applicavano alla portiera della loro automobile una bomba magnetica, che esplodeva qualche secondo più tardi. 
Senza andare così indietro, a maggio secondo gli esperti il blocco disastroso del porto di Shahid Rajaee, un terminal nuovo sullo Stretto di Hormuz, è stato causato da un attacco informatico che ha mandato in tilt tutti i sistemi che regolavano il traffico. Le immagini satellitari tre giorni dopo mostravano ancora una lunga fila di navi in coda, in attesa di entrare nel porto. Secondo il «Washington Post», si è trattato della rappresaglia israeliana per un attacco che gli hacker iraniani avevano tentato il mese prima al sistema computerizzato che regola l’irrigazione delle zone rurali in Israele. 
È possibile che chiunque sia dietro a questa campagna di sabotaggi faccia attenzione anche al calendario politico americano. Siamo agli sgoccioli del mandato di Donald Trump. Se a novembre ci fosse un cambio di presidente, è possibile che il neoeletto Joe Biden non vedrebbe di buon occhio questa campagna clandestina per fare pressione sull’Iran – soprattutto se volesse ricucire il patto del 2015 con molta diplomazia. Quest’estate c’era una finestra di opportunità, è stata sfruttata.