Mire espansionistiche – L’obiettivo di Ankara è quello di controllare i tre mari di prossimità (fra cui il Mediterraneo centro-orientale) per fini strategici ed energetici. Oltre che curare i sentimenti di inferiorità verso europei e americani
È il momento degli Stati revisionisti. Ovvero dei soggetti geopolitici che non sono soddisfatti dei propri confini attuali e pensano di allargarsi in terre altrui o di nessuno. Fra questi, il più disinibito, almeno alle nostre latitudini, è la Turchia.
Le frontiere strappate da Atatürk dopo la vittoria nella guerra contro la Grecia, sigillate nel 1923 a Losanna, vanno ormai strette alla Repubblica turca marca Erdoğan. Dopo la «riconquista» di Santa Sofia, la basilica già museo oggi riportata trionfalmente alla funzione di moschea, i segnali che vengono da Ankara confermano che la proiezione di potenza turca sarà sempre più ampia. L’idea è quella di una «Grande Turchia», con una sfera d’influenza tricontinentale (Europa, Asia, Africa) e uno spazio marittimo adeguato a tanta ambizione. Nelle parole del presidente sultano, si tratta di riportare la Turchia alla sua «grandezza reale», per dare inizio a una «nuova epoca» imperiale.
Fin dove vogliono spingersi i turchi? Fin dove possono? Unica certezza: un abisso separa la volontà di potenza dalla potenza disponibile. I vettori di potenza sono quelli classici: il neo-ottomano, sulle orme dei sultani; il panturanico, memore delle radici etniche in Asia Centrale, fino al Turkestan Orientale, nome turco del Xinjiang cinese oggi minacciato di sinizzazione totale; e il neocaliffale, con il presidente sultano che indossa anche le vesti di capo della comunità musulmana, almeno dei sunniti, a prescindere da ogni confine nazionale.
La piattaforma neo-ottomana riguarda da vicino noi europei, e si sposa in prospettiva con la califfale. Essa riesuma l’asse europeo di Costantinopoli per penetrare i Balcani adriatici. Manovra inscritta nell’ambizioso schema che coltiva la verticale Budapest-Baghdad. Capolinea dei sogni la Penisola arabica, con l’occhio della mente e il battito del cuore sincronizzati sulle frequenze dei muezzin che invitano al rito nelle sacre moschee di Mecca e Medina.
Ma la vera novità è la proiezione marittima. Si chiama Patria Blu (Mavi Vatan). Strategia volutamente vaga perché pragmatica che investe rotte, interessi e diritti marittimi dal Mar Nero al Mediterraneo orientale e di qui via Suez e Bab al-Mandeb all’Oceano Indiano. Penetra dunque nelle acque decisive per i nostri commerci e la nostra sicurezza. Le due direttrici turche disegnano una L rovesciata che dal Golfo di Venezia a Capo Teulada via Lampedusa e Pantelleria avvolge l’Italia. Mari agitati al grado strategico dal duello Usa-Cina, che nel quadrante regionale variamente coinvolge gli affacci europei, nordafricani e levantini sullo specchio d’acqua mediterraneo.
La Patria blu, al netto dei fumi tattici, è la tardiva scoperta della gerarchia delle onde da parte di un Paese in crescita demografica (82 milioni oggi, 90 nel 2030) di eccezionale ambizione e di robusta caratura militare, ma terribilmente a corto d’energia indigena. Flagellato dalla crisi economica e monetaria aggravata dal Covid-19. Perennemente turbato per la propria sicurezza. Lo slogan dell’ammiraglio Cem Gürdeniz, inventore della Patria Blu poi elevata a dottrina di Stato, evoca l’obiettivo di controllare i tre mari di prossimità (Nero, Egeo, Mediterraneo centro-orientale) e relativi stretti, per fini strategici ed energetici. Soprattutto, di pura gloria. Medicina che negli ultimi due secoli ha curato i lancinanti sentimenti d’inferiorità verso europei e americani, potenze contro cui Gürdeniz e seguaci, educati alla proiezione geopolitica eurasista, filorussa e antiamericana, condiscono il piatto forte della Patria blu: l’avvento turco nel cuore del Mediterraneo, e di qui assai oltre.
Quanto a Erdoğan, speditivamente identificato dai media mainstream con il suo Paese, è troppo scaltro per impigliarsi in una teoria geopolitica, per quanto lasca. Per lui, come per quasi tutta la classe dirigente turca, non importa di quale orientamento, la Turchia deve stare al centro del gioco, servendosi delle risorse altrui senza preconcetti: americani, cinesi, russi, arabi, ebrei, persiani o europei poco importa. Conta l’utilità alla patria – e a se stesso, stante la dimensione imprenditoriale della larga famiglia sultan-presidenziale. Obiettivo 2023, per Erdoğan anno della non scontata rielezione alla presidenza della Repubblica, ma soprattutto centenario di Losanna. Quel vestito cucito dagli europei addosso alla Repubblica di Turchia in fasce è camicia di forza. Fra tre anni Ankara conta di celebrarne il funerale di prima classe, tra monumentali fuochi d’artificio che illumineranno l’ascesa della Repubblica turca ai destini che sente consoni.