100 anni di vita, 70 di teatro

by Claudia

Se ne è andato Gianrico Tedeschi, «grande vecchio» della scena italiana

Inclini all’enfasi e all’iperbole, molti dei giornalisti che in Italia si occupano a vario titolo di arte e di spettacolo sono accomunati dall’uso frequente e disinvolto del termine «gigante» (da qualche tempo in netto vantaggio su «titano»). Di recente, se ne sono smodatamente serviti per qualificare Ennio Morricone (accostandolo talora a Mozart e Stravinsky), e più moderatamente per festeggiare il centesimo compleanno della sempre vigile Franca Valeri. (C’è anche chi lo ha usato per il cantautore Rosalino Cellamare, in arte Ron). Com’era facile prevedere, il vocabolo ha proliferato in occasione della definitiva uscita di scena di Gianrico Tedeschi (Milano 1920 – Pettenasco 2020). 
Quanto a Morricone, non saprei dire, dato che aveva grandi ambizioni e una grande opinione di sé. Immagino invece che Franca Valeri, apprendendo di essere un «gigante» (al femminile suonerebbe grottesco: «gigantessa»), abbia accennato uno dei quei sorrisetti ironici che le sono propri, magari aggiungendo con understatement non meno peculiare e irresistibile: «E dire che ho sempre pensato di essere un po’ bassina». Un sorrisetto ironico (da vecchio milanese che ha in odio i discorsi enfatici) lo farebbe anche Gianrico Tedeschi, che durante la sua lunghissima carriera (iniziata nel campo di concentramento di Sandbostel, dove fu internato per non aver aderito, dopo l’armistizio, alla Repubblica Sociale di Salò) è stato quanto di più lontano si possa immaginare dagli atteggiamenti narcisistici, esibizionistici e compiaciuti di un mattatore. E dunque, non sarebbe sufficiente definirlo un «grande attore»? Diversamente da ciò che sembra credere la maggior parte dei cronisti e dei recensori italiani (di quelli teatrali, soprattutto), non sono molti i grandi attori.
Per ragguagliare sbrigativamente chi non ha mai avuto il piacere di vederlo e ascoltarlo recitare (o lo ha visto e ascoltato solo in rare occasioni), mi limiterò a un elenco penosamente inadeguato. Attore di straordinaria e singolare versatilità, Gianrico Tedeschi ha interpretato testi importanti sotto la direzione di registi famosi quali Orazio Costa (La dodicesima notte), Luchino Visconti (Le tre sorelle), Giorgio Strehler (La vedova scaltra, L’opera da tre soldi, Arlecchino servitore di due padroni), Luca Ronconi (La compagnia degli uomini di Edward Bond). Ha lavorato in diversi sceneggiati televisivi (Delitto e castigo, Demetrio Pianelli), nel teatro di prosa in tv (Il gabbiano, La professione della signora Warren), e poiché sapeva cantare, anche nella rivista (Enrico ’61), nel musical (My Fair Lady), nel varietà e nell’operetta. Inoltre, in più di 40 film e nella pubblicità (Carosello). 
L’eccellenza assoluta, a mio parere, l’ha raggiunta interpretando in età avanzata due personaggi che egli erano quasi coetanei. Uno è il protagonista di un’opera di Thomas Bernhard, Il riformatore del mondo, inscenata da Piero Maccarinelli nel 1997. In quello spettacolo, Tedeschi indossava i panni di un vecchio filosofo diventato celebre, dopo anni di misconoscimenti e umiliazioni, per un suo frainteso trattato sul miglioramento del modo. Costretto su una poltrona da grave infermità (in parte, forse, simulata), «il riformatore del mondo» attende nella sua casa l’arrivo di alcune autorità cittadine, che verranno a consegnargli la laurea honoris causa. Tra le cinque e le undici del mattino, il vegliardo monologa o scambia rare battute con una serva-amante (quasi sempre silenziosa) sui più disparati argomenti: la cucina e la filosofia, la natura e l’arte, l’abbigliamento e la storia, la malattia e i viaggi. Le sue enunciazioni (asseverative e radicali nel loro nichilismo) sono spesso interrotte dai rimproveri, dalle osservazioni a volte crudeli e dagli ordini indirizzati con mutevole umore alla serva-amante (interpretata, sia nella messinscena del 1997 che nella ripresa del 2005, dalla moglie di Tedeschi, Marianella Laszlo), alla quale, ben più di rado, si rivolge chiedendo scusa e riconoscendo i propri debiti.  Sarcastico e dolente, aggressivo e lamentoso, lucidissimo e folle, Tedeschi dipingeva, tocco dopo tocco, un ritratto memorabile. 
L’altro personaggio è Giovanni Chierici, il protagonista settantaseienne di una delle più belle commedie del Novecento: La rigenerazione di Italo Svevo. Spronato dal nipote Guido, studente di medicina, e sedotto dall’idea di compiere biologicamente un passo all’indietro, Giovanni Chierici si sottopone a un’operazione di ringiovanimento. L’intervento chirurgico non può dirsi privo di efficacia, ma ringiovanire parzialmente nel corpo non significa essere rigenerati nello spirito. La giovinezza dei giovani è cosa diversa da quella dei vecchi ringiovaniti. La sua nuova condizione può consentirgli al massimo una camminata più spedita, e il fuggevole bacio carpito a una servetta, ma avendo in mente l’immagine di una donna amata quando la giovinezza era reale. L’interpretazione di Tedeschi, nello spettacolo del 1990 inscenato da Marco Bernardi, aveva gli stessi pregi del testo di Italo Svevo: una serietà dal tocco lieve; una gravità senza pesantezze; un umorismo e un’ironia venati di malinconia; un senso struggente del tempo, delle stagioni della vita; una capacità di unire con luminosa leggerezza memoria e desiderio, illusione e chiaroveggenza, sarcasmo e compassione.

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