Usa-Cina, divorzio traumatico

by Claudia

Tensioni geopolitiche – I padroni della Rete come Twitter e Facebook sono all’esame dell’antitrust a causa del loro (stra)potere di mercato, ma un loro indebolimento potrebbe nuocere a Trump nella grande sfida con Pechino

I Padroni della Rete sono più ricchi che mai. Sono anche più odiati, attaccati e accusati che mai. Ma sono indispensabili: nella nuova guerra fredda tra Stati Uniti e Cina, i «campioni dell’Occidente» (o presunti tali) sanno di avere un valore strategico. È questo il sunto di una folle estate che ha già visto sovrapporsi tre conflitti. In primo luogo c’è stato il «processo» ai big digitali imbastito dal Congresso di Washington, dove sono stati interrogati dai parlamentari americani i chief executive di Amazon (Jeff Bezos), Apple (Tim Cook), Alphabet-Google (Sundar Pichai) e Facebook (Mark Zuckerberg). Non si è trattato però di un remake dei grandi processi del passato al «capitalismo malefico», per esempio Big Tobacco o Big Pharma.
Stavolta infatti l’istruttoria ha preso direzioni divergenti. La destra liberale accusa alcuni di questi potentati di avere un’agenda politica anti-Trump. La sinistra, invece, riecheggia i temi dell’antitrust europeo: vorrebbe ridurre il potere oligopolistico dei giganti della West Coast, e possibilmente fargli pagare un po’ più di tasse. A conferma dei sospetti repubblicani, a una settimana di distanza dall’audizione al Congresso ben due social media, Facebook e Twitter, hanno censurato il presidente. Quest’ultimo però potrebbe aver bisogno di loro nella grande sfida con la Cina: sul dossier TikTok il «cavaliere bianco» di Microsoft può risolvere a suon di miliardi una tensione geopolitica.
Procedendo a ritroso, lo sviluppo più recente è l’ennesimo scontro fra social media e Trump sulla libertà di … dis-informazione. A tre mesi dall’elezione Facebook si unisce a Twitter, per la prima volta, nel «cancellare» una fake-news di Donald Trump. A scatenare la censura dei due social media è il video di un’intervista del presidente alla tv Fox News, in cui esortava alla riapertura immediata delle scuole. «Se guardiamo ai bambini – dice Trump nell’intervista – i bambini sono quasi immuni da questa malattia, direi completamente». L’estratto dal colloquio in tv era stato diffuso sul sito di Team Trump, la campagna elettorale del presidente. Verificata l’infondatezza di questa informazione, Twitter ha sospeso l’intero account di Team Trump fino a quando non è stata rimossa l’intervista.
Facebook ha cancellato il solo video, e per il social media di Zuckerberg si è trattato di una svolta rispetto all’atteggiamento tenuto finora. A differenza di Twitter che si era già mosso in passato, Facebook era restìo a intervenire sui contenuti degli utenti, in nome della libertà d’informazione. Nella dirittura d’arrivo verso il voto del 3 novembre, Trump potrebbe vedersi privato di uno dei suoi canali prediletti nella comunicazione con il pubblico: il presidente professa diffidenza e ostilità verso i media tradizionali e già nella campagna del 2016 fece un uso abbondante dei social per aggirare l’intermediazione di stampa e tv.
La Fox News di Rupert Murdoch fa eccezione, trattandosi di un network che gli ha sempre dato ampio spazio. L’azione «censoria» dei due maggiori social media è il risultato di una lunga battaglia che ha visto mobilitati settori dell’opinione pubblica, i media tradizionali, e sempre più spesso gli stessi dipendenti di Facebook e Twitter. I fautori di un intervento attivo sui messaggi presidenziali sono gli stessi che hanno criticato la lunga «neutralità» di Zuckerberg verso la disinformazione disseminata nel 2016 da fonti russe per influenzare la campagna. Facebook e Twitter furono criticati anche perché tollerarono a lungo la diffusione di messaggi di odio, razzista o sessista. 
Zuckerberg in passato si trincerava dietro il Primo Emendamento alla Costituzione americana, che offre una garanzia quasi illimitata alla libertà d’espressione. I media tradizionali a loro volta contestano il fatto che la normativa vigente rende responsabili giornali e tv per i contenuti che diffondono, mentre non fa altrettanto con i giganti della Rete. Alla fine, a smuovere Zuckerberg è stato l’effetto-Coronavirus. Da tempo Facebook ha mostrato una preoccupazione maggiore quando le fake-news riguardano la salute dei cittadini, in una fase in cui la pandemia conosce una recrudescenza in molti Stati Usa (California inclusa), e Trump è accusato di avervi contribuito con la sua tendenza a minimizzare il pericolo.
Se questo atteggiamento più interventista dovesse confermarsi, potrebbe avere qualche influenza sulla battaglia elettorale che vede il presidente in carica già in svantaggio rispetto al candidato democratico Joe Biden. Rilancerà anche le polemiche della destra sulla «faziosità» dei big digitali, considerati più vicini alla sinistra.
Su altri fronti peraltro Trump è stato e continua ad essere un loro difensore: contro la digital tax e le offensive dell’antitrust europeo, il presidente ha messo da parte le sue animosità e ha difeso a spada tratta i colossi della Rete, in nome dell’interesse nazionale. È tuttora aperto anche il dossier TikTok, la app di proprietà cinese che Trump vuole mettere al bando, e che potrebbe salvarsi se viene acquisita dalla Microsoft. Il nazionalismo economico ha portato a delle alleanze di convenienza tra la Casa Bianca e una West Coast dove i vari Zuckerberg, Jeff Bezos e Bill Gates hanno spesso beneficiato del liberismo economico repubblicano, ivi compreso nei regali fiscali che hanno consentito il rimpatrio di capitali dall’estero. 
L’ultimo capitolo della guerra fredda Usa-Cina investe un social media a cui probabilmente sono affezionati vostra figlia o vostro nipote. TikTok ha centinaia di milioni di utenti nel mondo, decine di milioni solo negli Stati Uniti. Per lo più adolescenti, troppo giovani per votare a novembre, altrimenti forse Trump sarebbe meno drastico. L’offensiva del presidente americano contro questo social apparentemente innocuo – vi circolano soprattutto video musicali e balletti improvvisati, ma ha visto nascere vere e proprie star – ha la stessa logica di quella scatenata contro Huawei per la telefonia di quinta generazione. 
TikTok fa capo a una proprietà cinese, il gruppo ByteDance. Come per il 5G, il sospetto è che una tecnologia made in China invada il nostro universo digitale e serva da cavallo di Troia per saccheggiare i nostri dati, depredare la nostra privacy, oppure censurare e manipolare la comunicazione. Può sembrare cattiva fanta-politica, dietrologia paranoica agitata da un presidente in caduta di consensi. Però quel che accade a Hong Kong consiglia di non sottovalutare la prepotenza di Xi Jinping, né l’implacabile determinazione del Grande Fratello cinese nel soffocare il dissenso. 
Un’azienda di proprietà cinese non è in grado di disobbedire alle direttive del governo di Pechino, di qualunque natura esse siano. A risolvere l’ennesimo scontro di natura geopolitica ci prova un gigante capitalista, la Microsoft fondata da Bill Gates. Se Microsoft comprasse TikTok, il passaggio sotto una proprietà americana risolverebbe il casus belli. Ma altre mine sono destinate a esplodere, poiché il mondo ne è disseminato. Dopo trent’anni di integrazione Usa-Cina, il «decoupling» o divorzio è traumatico. 
La nuova guerra fredda ha continuato la sua escalation nelle ultime settimane. Washington ha varato nuove sanzioni contro dirigenti cinesi responsabili degli abusi contro la minoranza islamica degli uiguri nello Xinjiang; ha dichiarato illegali le pretese territoriali di Pechino nel Mare della Cina meridionale; ha tolto a Hong Kong tutti i privilegi commerciali fiscali e diplomatici; ha chiuso il consolato della Repubblica Popolare a Houston, Texas, sospettato di essere un covo di spie (tra le altre cose i diplomatici cinesi di stanza a Houston avrebbero tentato di carpire segreti sulle ricerche di vaccini anti-Coronavirus).
Il capitalismo globalista si adatta al nuovo scenario geopolitico. Ormai si è convertito alla guerra fredda perfino Zuckerberg. Ancora pochi anni fa il giovane padre-padrone di Facebook si era distinto per un corteggiamento sfrenato verso Xi Jinping. Sperando di farsi aprire il mercato cinese da cui il suo social media è bandito, Zuckerberg aveva moltiplicato i gesti di piaggeria: in una cena di Stato offerta da Obama in onore di Xi Jinping, il chief executive di Facebook era arrivato a chiedere al presidente cinese un nome in mandarino per sua figlia allora neonata. Adesso, sotto inchiesta al Congresso di Washington per ragioni di antitrust, Zuckerberg chiede comprensione al governo degli Stati Uniti presentandosi come un’azienda patriottica, un condensato di valori americani.
Nell’ostilità totale tra America e Cina si aggiunge un elemento nuovo. È l’idea contenuta nel recente discorso di Mike Pompeo secondo cui «il dialogo va condotto con il popolo cinese, con chi ama la libertà, perché il partito comunista non rappresenta quel popolo di un miliardo e 400 milioni». Come ai tempi dell’Unione sovietica, il conflitto tra le due superpotenze diventa ideologico, a tutto campo. Dopo le tante offensive già aperte nel campo economico e tecnologico, diplomatico e militare, l’appello ai cinesi perché rovescino la «tirannide» era l’ultimo tassello che mancava. Trump userà la Cina nella sua campagna contro Biden, cercando di descrivere il suo rivale democratico come un esponente del vecchio establishment che firmò accordi di libero scambio ai danni della classe operaia americana, e fece concessioni fatali al regime di Pechino. Ma Biden ha indossato a sua volta i panni del falco. Lungi dal promettere un disgelo, il democratico preannuncia che sarebbe più duro di Trump sui diritti umani, più credibile di Trump nel chiamare a raccolta gli alleati per fare fronte unito contro Pechino, più efficace di Trump nell’attuare una politica industriale che recuperi il ritardo americano nella tecnologia 5G. A proposito di 5G, incassa vittorie la pressione americana per dissuadere gli alleati dal comprare la nuova generazione di infrastrutture telecom dai cinesi. Il Regno Unito ha ceduto di recente, l’India sta per fare lo stesso. Il mondo si divide in sfere, la logica del bipolarismo impone di scegliere da che parte stare. Gli adolescenti catturati da TikTok fanno fatica a capire, ma anche il loro divertimento è un terreno conteso fra superpotenze.