La Bielorussia è uno Stato di importanza strategica nel confronto permanente fra Russia e Nato. È infatti l’avanguardia occidentale del sistema di protezione dello spazio russo, storicamente basato su ampi territori cuscinetto, oggi in parte integrati dall’avversario atlantico o non più sotto diretto controllo del Cremlino. San Pietroburgo, ad esempio, dista circa 160 chilometri dalla frontiera orientale della Nato, dieci volte meno che ai tempi della guerra fredda. E l’Ucraina, dopo settant’anni di integrazione nell’Unione Sovietica e due decenni di indipendenza sotto indiretta influenza moscovita, è ormai fuori dall’orbita della Federazione Russa. Con l’importante eccezione della Crimea, e ferma restando l’incerta evoluzione della guerra a bassa intensità che strazia il Donbas.
Resta la Bielorussia quale ultima vera assicurazione sulla vita di Mosca. Il suo territorio è fondamentale in chiave difensiva per il potere russo. Nella storia, lo spazio bielorusso ha contribuito in modo decisivo all’assorbimento e poi al respingimento degli invasori da ovest. Ultimo caso, la Wehrmacht, che nel 1941-43 fece terra bruciata in Bielorussia, fra l’altro liquidandovi tutta la popolazione ebraica. Il tasso di distruzione delle città bielorusse, in specie della capitale Minsk, fu durante la Seconda guerra mondiale tra i più alti dell’intera Unione Sovietica.
Poiché il senso di accerchiamento che da sempre attanaglia gli strateghi russi si è accentuato negli ultimi decenni a causa dell’allargamento verso est della Nato, il peso specifico della Bielorussia ne è per conseguenza aumentato. Di qui la speciale attenzione che circonda quel Paese in seguito alle manifestazioni di protesta scatenate dalla contestata vittoria di Aleksandr Lukashenko alle recenti elezioni presidenziali. Ufficialmente il presidente in carica è stato riconfermato per la sesta volta con l’80% dei voti. Ma è opinione comune degli osservatori esterni e di gran parte dell’opinione pubblica bielorussa che quel voto sia stato largamente manipolato. Di qui le proteste di piazza, non solo a Minsk, con la violenta repressione della polizia: migliaia di arresti, centinaia di feriti, almeno un paio di vittime.
La sfidante del presidente, Svetlana Tikhanovskaja, dopo un lungo interrogatorio di polizia è stata spedita in «autoesilio» nella vicina Lituania, da dove ha fatto capire di aver fatto una scelta di cuore: per salvare il marito – aspirante leader dell’opposizione incarcerato dal regime in quanto sovversivo e presunto agente di Putin – ha preferito lasciare la patria. Per ora. Mentre la bandiera degli anti-Lukashenko è ora impugnata dalla più combattiva Maria Kolesnikova, che con Veronika Stepalo ha formato un trio di donne simbolo dell’insofferenza popolare nei confronti dell’«ultimo dittatore d’Europa».
Di qui a immaginare una Majdan bielorussa molto ne corre. Anzitutto, non esistono in Bielorussia strutture politiche degne del nome. Partiti e organizzazioni civiche non hanno spazio sotto Lukashenko. Non esiste alcun centro di aggregazione capace di coalizzare e guidare una piazza in rivolta. Né risultano gruppi armati, come nel caso ucraino. Inoltre, gli Stati Uniti non sembrano disposti ad andare oltre un sostegno di maniera alle rivendicazioni dei manifestanti, che vorrebbero annullato il voto presidenziale. L’unico slogan comune ai ribelli è «Vattene!». Chiaro e potente, ma certo non una piattaforma politica per il dopo-Lukashenko.
Gli europei oscillano tra protesta verbale e scelta delle sanzioni – modo per fingersi uniti quando non si sa che fare. Gli stessi polacchi, che guidano il fronte anti-russo nella Nato e nell’Ue, sembrano incerti. Fino a che punto spingere sull’acceleratore per un cambio della guardia a Minsk sul modello di Kiev, salvo poi trovarsi i russi, scattati in avanti per riempire il vuoto determinato dalla crisi del regime di Lukashenko, alla propria frontiera orientale?
Certo è comunque l’accresciuto valore geopolitico della Bielorussia. Da anni corteggiata dalle massime potenze: la «sorella» Russia, che avrebbe voluto costringerla in uno Stato comune, diretto da Mosca, ipotesi rifiutata da Lukashenko; gli Stati Uniti, interessati a creare incertezza nelle aree cuscinetto intorno alla Federazione Russa, minandone la sfera d’influenza assai ridotta; la stessa Cina, in prospettiva «vie della seta» e non solo.
Ad oggi l’ipotesi meno improbabile è uno stallo. La cui durata non potrà comunque essere troppo lunga. La parabola di Lukashenko volge verso il basso. La sua successione altererà, in un senso o nell’altro, la collocazione geopolitica della Bielorussia. E con essa, gli equilibri eurasiatici.