Kamala, è lei l’astro nascente

by Claudia

Casa Bianca – Scegliendo una donna nera di origini indiane come vicepresidente, Joe Biden fa riscoprire all’America l’idea di futuro. La Harris appare perfetta per chiamare a raccolta tutte le categorie più ostili a Trump

Il «soffitto di vetro» che impedisce a una donna di conquistare la Casa Bianca potrebbe avere il tempo contato. La prossima presidente degli Stati Uniti potrebbe essere di discendenza afro-caraibica e indiana. Il candidato democratico Joe Biden scegliendosi Kamala Harris come vice ha fatto un gesto denso di conseguenze, che lancia un ponte verso le nuove generazioni, le donne, le minoranze etniche. Biden ha dimostrato anche di essere magnanime. Non ha serbato rancore alla Harris per l’attacco feroce che lei gli sferrò durante uno dei primi dibattiti televisivi per la nomination democratica: accusandolo non troppo velatamente di razzismo. Oggi la scelta della Harris riveste un’importanza senza precedenti nella storia delle elezioni americane.
Biden ha 77 anni e in caso di vittoria ne avrà 78 all’Inauguration Day nel gennaio 2021. Porta male la sua età, la distanza rispetto a Trump sembra maggiore. Non è mai stato un oratore brillante ma ultimamente le gaffe si sono moltiplicate. Se a questo si aggiunge il Coronavirus, molti elettori il 3 novembre si chiederanno se Biden sarà in grado di portare a termine un mandato di quattro anni. Di sicuro non sarà un presidente che si ricandida per il bis.
Dalla prima fase della campagna elettorale, quando era ancora candidata alla nomination presidenziale del suo partito, la Harris ha lasciato l’impressione di una donna energica, brillante, aggressiva. Con la sua vitalità, la sua giovinezza, e la sua adrenalina, può supplire alle carenze di Biden. Finora questa è stata una campagna anomala, con un candidato democratico pressoché invisibile. Finora gli è andata bene perché tra Coronavirus e crisi economica Trump si è fatto del male da solo. Non è detto che la non-campagna possa continuare fino a novembre, è ora che scenda in campo una combattente.
L’America vuole innamorarsi di un presidente che incarni un’idea positiva del futuro. Biden l’ha trovata e si chiama Kamala. A 55 anni la senatrice della California ha tutto quello che manca all’anziano vice di Barack Obama. Energetica, volitiva e competente, incarna tutti i sogni americani: quello delle donne, dei neri, degli immigrati. È una figura inedita che potrebbe avvicinarsi al primo ministro di una Repubblica parlamentare europea, o al suo capogabinetto: una policy-maker con vaste responsabilità nel preparare il programma di governo, e poi attuarlo.
Biden indica ai democratici il loro futuro, in questa donna che aveva 8 anni quando lui iniziava il suo primo mandato al Congresso. Kamala è sul trampolino di lancio per succedergli. Già questo rivela la strategia del duo Biden-Harris: nelle loro biografie e nelle loro fisionomie c’è la promessa di un passaggio delle consegne, la costruzione di una nuova classe dirigente inclusiva, nella quale si riconoscano tutti coloro che erano rimasti ai margini del potere.
La strategia del ticket Biden-Harris ha una parte evidente, perfino plateale, e un’altra nascosta. Il primo aspetto è quello su cui si sta concentrando l’attenzione. La Harris è perfetta per chiamare a raccolta tutte le categorie più ostili a Donald Trump, motivarle e galvanizzarle, garantire che affluiranno in massa alle urne. Sono donne e giovani, afro-americani e immigrati (in quanto figlia di un giamaicano e un’indiana, Kamala unisce questi due gruppi). La senatrice californiana esaudisce le aspettative di rinnovamento di questi gruppi. La loro avversione a Trump non comporta automaticamente che vadano alle urne il 3 novembre, o che spediscano le schede per corrispondenza nei due mesi precedenti. Il passato (Bush-Gore, Trump-Clinton) insegna che proprio le fasce più radicali, quelle che riempiono le piazze, sono le più indisciplinate il giorno del voto. Sono leggendari i tradimenti dei giovani della sinistra radicale, quelli che regalarono la Casa Bianca a Bush nel 2000 perché votarono il verde Ralph Nader.
Nel 2016 l’affluenza giovanile alle urne fu molto deludente, e questo danneggiò Hillary. Il fatto che fino a qualche settimana fa i giovani abbiano invaso le piazze per protestare contro il razzismo della polizia dopo la morte di George Floyd, è un «tranello elettorale» che Biden conosce bene. Le manifestazioni eccitano le attese di un cambiamento epocale, ma dai cortei alle urne il cammino è lungo. Gli stessi che urlavano nei cortei possono sottrarsi a un dovere elettorale che giudicano poco rivoluzionario. Avere come vice una donna di colore è un omaggio evidente a quell’ala sinistra e movimentista, perché non tradisca il ticket democratico.
La strategia Biden-Harris però guarda anche ad un’altra categoria di elettori: gli operai bianchi. Furono loro a creare a sorpresa la presidenza Trump. Fasce di metalmeccanici, siderurgici, minatori, sindacalizzati ed ex-democratici, in alcuni Stati del Midwest si sentirono beffati da una sinistra globalista, pronta a fare accordi con la Cina e a spalancare le frontiere agli immigrati clandestini. Recuperare consensi in questa classe operaia bianca è altrettanto importante che fare il pieno delle «sinistre arcobaleno». Il vecchio Joe ha una storia personale che lo rende molto più vicino all’America operaia, rispetto all’élitaria Hillary.
Ma quando Biden dice che la Harris è «simpatico» (al maschile), più alla simpatia allude all’empatia e all’armonia di vedute, al feeling comune. La Harris infatti nonostante la sua immagine personale «alternativa» ha una storia che parla chiaro: è una moderata, centrista come Biden. Quando era Attorney General della California, una carica che unisce il compito di un ministro della Giustizia a quello di un procuratore capo, non cedette mai al lassismo sull’ordine pubblico. Anzi per la sinistra radicale dei campus universitari la Harris era una giustiziera, troppo severa nell’applicare il codice penale.
Questo suo passato le torna utile oggi. Trump ha interesse a dare il massimo risalto a quel che sta accadendo a Chicago, New York, Seattle, Minneapolis: dopo i cortei di Black Lives Matter, dopo gli slogan «de-fund the police», sono arrivati i tagli alle forze dell’ordine, e il risultato è inquietante. È in atto una «seconda fase del movimento», gestita dalle gang, con saccheggi e razzìe, aumenti di sparatorie e omicidi. Trump può tentare di ripetere il colpaccio del 2016 descrivendo un’America che scivola verso il caos, l’anarchia e la violenza. Avere al suo fianco una «poliziotta» come Kamala è una scelta strategica per Biden.
L’altro tema dominante da qui al 3 novembre sarà l’economia. La rete di protezione per i disoccupati si sta esaurendo. Al Congresso, democratici e repubblicani non hanno trovato l’accordo su una nuova manovra di spesa pubblica. Trump ha visto un’opportunità in questo stallo e si è proposto come salvatore dei senza lavoro, promettendo di dirottare fondi federali in loro aiuto. Il ticket Biden-Harris ora dovrà assumere la guida delle truppe parlamentari democratiche, per togliere l’iniziativa alla Casa Bianca.
Da quando ha avuto inizio la «pandemia economica», cioè la depressione da lockdown, gli Stati Uniti sono stati fra le nazioni più energiche nelle manovre anti-crisi. Il totale della spesa pubblica d’emergenza già erogata da Washington vale il 13,2% del Pil. Di più hanno fatto solo Giappone e Canada, in proporzione al loro Pil. Nessuna manovra europea ha raggiunto dimensioni paragonabili. Eppure non basta, la rete di protezione americana sta raggiungendo i suoi limiti. La disoccupazione supera il 10% della forza lavoro. Le indennità di disoccupazione aggiuntive – 600 dollari settimanali di sussidi federali, da sommare agli aiuti statali là dove ci sono – sono scadute con la rata di luglio.
La Camera a maggioranza democratica e il Senato a maggioranza repubblicana non hanno trovato finora un accordo per una manovra supplementare. Trump vuole presentarsi come un presidente che agisce mentre i parlamentari litigano e tergiversano. Ha by-passato il Congresso firmando un decreto esecutivo che interviene su alcune emergenze sociali: estensione dell’indennità di disoccupazione (sia pure in misura ridotta: 400 dollari settimanali di cui 100 a carico degli Stati); sgravio della payroll tax che equivale agli oneri sociali e contributivi del «cuneo fiscale» italiano; prolungamento del blocco di alcuni sfratti; dilazioni sui ratei dei prestiti agli studenti.
L’intervento è di dubbia costituzionalità e tuttavia è abile. Mette in difficoltà i democratici. Nessuna delle misure contenute in quel decreto è contestabile in sé. Tutte si possono considerare «di sinistra», in quanto rispondono a bisogni sociali acuti. Solo una è a favore delle imprese (la riduzione dei prelievi sulle paghe a carico dei datori di lavoro) ma indirettamente può favorire i dipendenti. Sono interventi insufficienti vista la gravità della crisi ma sono meglio che niente.
E dal Congresso finora è uscito il niente. Che l’atto sia incostituzionale è possibile: il presidente degli Stati Uniti ha scarsi poteri in materia di bilancio, entrate e spese le deve decidere il ramo legislativo; per erogare quei pagamenti Trump deve fare acrobazie spostando fondi da altre voci di spesa già approvate. Tuttavia quando la presidente della Camera Nancy Pelosi, democratica, denuncia l’incostituzionalità, si mette in una posizione vulnerabile. Ai disoccupati non interessa il dibattito sui poteri dell’esecutivo, vogliono sapere come arrivare a fine mese.
Trump sa che c’è una sola istituzione più impopolare di lui fra gli americani: è il Parlamento. In una fase in cui è in netto svantaggio su Biden, e la sua gestione della pandemia viene giudicata pessima, il presidente tenta una rimonta sull’unico terreno dove gli americani gli riconoscono una certa competenza: l’economia. Sta a Biden evitare la trappola, e spingere i suoi colleghi parlamentari perché trovino la strada di un compromesso bipartisan: per cancellare la mini-manovra Trump con un intervento più esteso e duraturo.