In Libano il governo si è spento ancora prima di rassegnare in modo formale le dimissioni. Gruppi di volontari hanno preso l’iniziativa, spazzano le strade e ammonticchiano dove trovano spazio le migliaia di tonnellate di detriti create dall’onda d’urto dell’esplosione che due settimane fa ha devastato Beirut. Sono cittadini auto-organizzati che tentano di liberare la città dalle conseguenze più immediate del disastro, come la montagna di vetri rotti che copre le strade di quasi tutti i quartieri, oppure portano bottiglie di acqua e sacchetti di pane alle famiglie che non hanno più una casa – sono moltissime, circa duecentomila persone. Secondo le Nazioni Unite, il Paese ha pane per le prossime due settimane e mezzo (è una situazione a rischio, ma alcune navi cariche di cibo stanno già arrivando). Esercito e polizia non fanno nulla. Proteggono le sedi dei Ministeri e della Banca centrale da dietro le inferriate e osservano i libanesi fare tutto il resto – e prendersi cura di una città che non sa se riuscirà a tornare come prima.
Il governo appena ha capito che non sarebbe sopravvissuto alla rabbia popolare si è dimesso in blocco, ma esercita ancora un potere provvisorio in attesa che si trovi il nome che formerà un nuovo esecutivo. Potrebbe volerci pure un anno, considerato che in Libano ogni negoziato politico è un esercizio di spartizione millimetrica di ogni cosa e tutti gli accordi devono tenere in considerazione l’equilibrio delicatissimo fra etnie e religioni che regge il Paese dalla fine della guerra civile. Si fa il nome di Nawaf Salam, un giurista libanese che è stato ambasciatore alle Nazioni Unite e ora lavora alla Corte internazionale di giustizia. Ha una reputazione di uomo onesto e di sicuro il fatto che lavora fuori dal Paese lo fa apparire molto desiderabile ai libanesi esasperati.
Christina Perreira, ricercatrice di Stanford, scrive che il Libano ha un problema di troppa stabilità come molti altri paesi usciti dopo sofferenze enormi da un conflitto fratricida. Di solito le elezioni sono una competizione e gli elettori hanno la possibilità di scegliere i politici che gli sembrano migliori e buttare fuori dalla gara quelli che sembrano inadatti. Ma a Beirut almeno dal 2005 il potere è in mano a un cartello di partiti che sono avversari soltanto di nome e che invece nei fatti si mettono d’accordo su tutto, con la scusa che altrimenti si torna alla guerra civile. Gli elettori hanno soltanto l’illusione di contare qualcosa, vedono aggiustamenti minimali ma nulla si muove. Il risultato si è visto.
Il Paese ha superato la fase della stagnazione ed è arrivato a quella della decomposizione. La moneta ha perso l’ottanta per cento del suo valore negli ultimi mesi per colpa delle perdita improvvisa di credibilità (improvvisa per chi non voleva vedere cosa stava succedendo) e questo vuol dire che la gente normale ha perso di colpo l’accesso anche a beni che non sono di lusso. Due settimane fa i libanesi raccontavano all’inviato dell’«Economist» che «per ora non siamo ancora poveri, lo saremo quando dovremo sostituire il frigo o i freni dell’auto e scopriremo che non possiamo più farlo». L’esplosione ha accelerato questo processo in modo incredibile, poteva prendere anni e invece ci sono voluti pochi giorni.
Lo stato di sospensione fra benessere e carestia è finito. Molti libanesi non hanno i soldi per sostituire le finestre rotte, che sono aumentati di dieci volte e vanno pagati con gli introvabili dollari. La città che era considerata la Parigi del Medio Oriente è diventata un posto dove almeno un terzo degli abitanti è disperato – e non c’è dubbio che diventerà più pericolosa di adesso.
E pensare che il governo non più tardi di luglio aveva ricevuto un avvertimento su quanto fosse pericoloso tenere tutte quelle tonnellate di nitrato d’ammonio nel centro di Beirut e non ha fatto nulla. Quando è scoppiato il rogo al magazzino che poi ha portato all’esplosione, e si vedeva da tutta la città, c’era il tempo di lanciare un allarme generale che avrebbe evitato molte morti, ma nemmeno quello è stato fatto. Così migliaia di persone sono rimaste affacciate a osservare un incendio che era una grande miccia accesa. Come si diceva, il governo è immobile.
La causa prima di questa immobilità è la presenza del Partito di Dio, anche conosciuto con il nome in arabo di Hezbollah. Il Partito ha un potere abnorme grazie al fatto che dispone di una milizia armata – anzi sarebbe meglio dire che è il contrario, si tratta di una milizia armata che dispone di alcuni rappresentanti politici. Hezbollah è uno Stato dentro lo Stato e sfugge a qualsiasi controllo del governo. Ha mandato i suoi miliziani a combattere in Siria alla luce del giorno su ordine dell’Iran, come se fosse la cosa più normale del mondo. Ha fatto passare nel sottosuolo di Beirut una linea telefonica tutta sua, per evitare di usare la stessa linea che usano gli altri libanesi e che potrebbe essere intercettata. Controlla la metà meridionale del Paese e anche il porto e l’aeroporto di Beirut – sa sempre chi e cosa esce ed entra nel Paese. Dispone di giornali e televisioni che si incaricano di dettare la linea.
Ma la sua forza persuasiva è sempre quella delle armi. È il Partito di Dio che in questi anni ha tenuto in piedi il cartello dei partiti che paralizza il Libano, perché ai miliziani conviene così. È il Partito di Dio che siede al centro di tutti i negoziati per formare i governi – e infatti anche questo che si è appena dimesso era molto filo Hezbollah. E quando i libanesi che non ne possono più scendono in piazza a gridare lo slogan di protesta, «tutti vuol dire tutti», vogliono dire che Hezbollah non deve sentirsi al di sopra degli altri partiti: deve andarsene via con loro, dopo aver bloccato il Paese per anni.