L’india appartiene agli indù?

by Claudia

Seta indiana – Ad Ayodhya nell’Uttar Pradesh Narendra Modi ha posato la prima pietra del tempio di Ram che sarà costruito sul sito di una storica disputa tra induisti e musulmani

Chi accendeva la TV o navigava su Internet in India lo scorso 5 agosto, vedeva soltanto un mare di arancione. Arancione come le vesti dei sadhu, i mistici induisti. Arancione come il colore legato al partito al governo, che per qualcuno è ormai sinistro quanto le bandiere con la croce uncinata. Vedeva un mare di arancione e sentiva esclusivamente musica religiosa. Perché tutti, letteralmente tutti i media indiani, televisioni, giornali online e canali YouTube, erano collegati con Ayodhya, città dell’India del nord.
Dove il premier Narendra Modi, nel corso di una lunga ed elaborata cerimonia religiosa, si accingeva a porre la prima pietra delle fondamenta di un tempio dedicato a Ram, semidio che, in un passato avvolto nel mito, è stato re della città. Una pietra importante, perché metteva simbolicamente anche la classica pietra sopra a una questione, la cosiddetta «questione di Ayodhya» per l’appunto, che ha indirettamente provocato in India nel corso degli anni cinque-seimila morti e che è, in uno dei suoi risvolti più inquietanti, strettamente connessa anche alla figura del suddetto Modi. 
La moderna «questione di Ayodhya» comincia con un lontano episodio di cronaca: il 6 dicembre 1992 centinaia di integralisti indù radevano al suolo la Babri Masjid, la principale moschea della città costruita nel 1529 in onore di Babur, fondatore dell’impero Moghul, per costruire al suo posto un tempio dedicato a Ram. L’ondata di violenza scatenatasi per tutta l’India di conseguenza è costata nel corso degli anni più di cinquemila vite umane. Dalla irrisolta «questione di Ayodhya» sono dipesi i massacri compiuti in Gujarat mentre Narendra Modi era chief minister dello Stato, e che secondo una parte dell’opinione pubblica sono stati compiuti ai danni dei musulmani con la sua connivenza. 
Dalla questione di Ayodhya dipendeva la bomba esplosa nell’ottobre 2002 nel tempio induista di Godhra, l’attacco al parlamento di Delhi nel 2001 e anche le bombe esplose all’India Gate di Bombay nel 2003. Per riassumere i termini della questione: il 22 settembre 1949, un simulacro di Ram appariva misteriosamente all’interno della principale moschea di Ayodhya. La cosa veniva interpretata dagli induisti come una specie di «reclamo» da parte del semidio sul suolo del suo luogo di nascita. Nasceva una disputa religioso-catastale tra musulmani e indù, e di conseguenza le autorità civili dichiaravano il luogo «proprietà contesa» apponendo i sigilli. 
Nel 1992, la disputa culminava nella distruzione della moschea e i relativi scontri. La disputa si è trascinata, con perizie e contro-perizie da parte dell’Archeological Survey of India, fino allo scorso anno, quando la Corte Suprema ha emesso una più o meno salomonica sentenza: ha attribuito il possesso del terreno agli induisti, e assegnato ai musulmani un altro lotto di terra per costruire una moschea. Curiosamente, il verdetto non è stato accompagnato da nessuna polemica tranne quelle di una ormai stanca routine. 
La posa della prima pietra del tempio ha segnato, secondo alcuni, «la morte del secolarismo» in India e l’ennesimo passo compiuto dal governo per ledere i diritti dei cittadini di religione musulmana. Non a caso difatti, si dice, per porre la prima pietra del tempio di Ram si è scelta la stessa data, il 5 agosto, che lo scorso anno ha segnato l’abolizione dell’articolo 370 della Costituzione che attribuiva al Kashmir uno statuto speciale. Come avviene ormai da più di un anno in India, nessun gesto, nessuna legge e nessun provvedimento, anche il più innocuo e sensato, è immune dal clima avvelenato che si respira nel Paese e dalla polarizzazione estrema in cui tutto viene interpretato e letto. Perché le discussioni, invece di focalizzarsi sui temi caldi per il Paese, come l’economia in ribasso e la mancanza di posti di lavoro, sono sempre e soltanto focalizzate su «pro-musulmano, anti-musulmano». Centrate sulla vera o presunta agenda nefasta del secondo governo Modi e sulla sua volontà di far diventare l’India una nazione indù.
Curiosamente, di tutto ciò ad Ayodhya non c’è e non c’è mai stata traccia. Secolarismo, a guardare da qui, è una parola sconosciuta ai più. La città, secondo la tradizione, è stata fondata dagli dèi ed è prospera come il Paradiso: e sono proprio gli dèi che le assicurano i suoi principali mezzi di sussistenza. Città sacra, per diversi motivi, agli induisti, ai musulmani, ai buddhisti e ai giainisti, Ayodhya fonda difatti la sua economia quasi esclusivamente sul business religioso. E Ram, in particolare, si è rivelato una inesauribile fonte di guadagno per tutti: sacerdoti, commercianti, albergatori, guide turistiche e perfino mendicanti, di qualunque religione essi siano.
Ad Ayodhya esistono 7001 templi, nella maggior parte dei quali si lavora quasi esclusivamente per garantire assistenza ai viaggiatori. Il flusso di denaro, alimentato dalle donazioni dei pellegrini e dai loro acquisti, è costante e ininterrotto e destinato a crescere in misura esponenziale con la costruzione del tempio. Trattori, autobus, carri trainati da buoi, macchine e treni scaricano a intervalli più o meno regolari devoti e agitatori pronti a portare il loro contributo alla gloria di Ram o ai suoi detrattori. 
E mentre nel resto del Paese infuriano le polemiche, ad Ayodhya musulmani e induisti si spalleggiano e fanno da anni fronte comune difendendosi l’un l’altro ogni volta che seguaci dell’una o dell’altra causa cercano di turbare la quiete cittadina e la sua «divina» prosperità. Il rischio maggiore, a sentire la gente del luogo, è che una città bellissima con i suoi palazzi che cadevano serenamente in rovina sulle rive del fiume Saryu e da cui ti aspettavi di veder comparire da un momento all’altro Ram e sua moglie Sita, venga invasa dall’ondata arancione portatrice di merchandising, costruzioni selvagge, e «progresso» misurato nel numero di toilette pubbliche a disposizione dei fedeli per costruire le quali si abbattono palazzi e costruzioni secolari.
Così, mentre amici e conoscenti in tutta l’India inviavano selfie dalla bhoomi puja per dire «io c’ero», si celebrava il funerale non del secolarismo ma dell’Ayodhya che fu. Una città dai ritmi lenti e rilassati, che si srotola placida attorno al fiume e si avviluppa attorno al rosso tempio di Hanuman. Una città che la luce, al tramonto e all’alba, avvolge di un magico alone rosato che si riflette sui vecchi palazzi lungo il fiume. Una città che rischia di scomparire per sempre, come molta parte dell’India, nelle luce arancione troppo cruda della modernità.