Sulle rive del Caribe

by Claudia

Viaggiatori d’Occidente - Reportage dalle fortezze dei pirati

Possenti son le loro mura. Minacciose e guardinghe si stagliano sulle rocce a picco sul mare o, quatte, s’articolano lungo i fiumi; oppure spesso sono tutt’uno coi porti, le città mitiche dei tesori del Nuovo Mondo, dove barbagliavano promesse di ricchezza o s’infrangevano sogni di gloria. Stan lì, le fortezze del Caribe, ormai silenziose di truppe e cannoni, ma loquaci di storie, quelle che raccontano di pirati e d’arrembaggi. Grazie a loro gli spagnoli hanno conservato il controllo di quella parte di continente che per secoli li ha resi i più ricchi del pianeta (se non si considerano i cinesi).
Il Caribe – che noi chiamiamo Caraibi per una delle consuete sviste linguistiche – è un piccolo mare, come il nostro Mediterraneo, preso tra il continente e le Antille Grandi e Piccole, da Cuba fino a Trinidad. Esso fu il fulcro del potere spagnolo, lo snodo principale delle ricchezze americane. Per questo i forti, i baluardi. Per tener lontani pirati, corsari, filibustieri, avventurieri e criminali d’ogni risma; spesso guerriglieri infiltrati in terra straniera, protetti e autorizzati da governi interessati – francese, olandese, inglese – a intaccare la strapotenza iberica. Una guerra europea combattuta su mari coloniali.
Uno dei punti più fortificati era (ed è) Portobelo. Sulle coste settentrionali panamensi, questa cittadina bollente e assonnata, con casette di mattoni coperte di lamiera e povertà era, nel Seicento, un centro commerciale di prim’ordine e uno degli snodi principali della rotta dei tesori sudamericani che da Lima, Perù, sbarcavano alla Città di Panama, sul Pacifico, per arrivare infine a Portobelo a dorso di mulo, attraverso il Camino de las cruces, il primo tracciato interoceanico americano. Qui li attendeva la Flota de indias, la flotta del tesoro, lo strumento del monopolio commerciale spagnolo, artefice della prima globalizzazione, quando anche la biologia dei continenti tornò a rimescolarsi. Una volta l’anno, armata fino ai denti, la flotta faceva la spola tra Siviglia e le Americhe – Portobelo, Veracruz e Cartagena de Indias – sostituendo il carico di beni introvabili recati dalla madrepatria con le ricchezze americane, prima di riunirsi a l’Avana per affrontare l’Atlantico sulla via del ritorno.
Portobelo fu scoperta e battezzata in lingua italica – Porto Bello – nientemeno che da Cristoforo Colombo, nel suo quarto viaggio atlantico. Seduti su un cannone arrugginito rivolto alle acque chete della baia, tra i merli della fortezza di Bateria de Santiago, Felipe, pescatore curioso e informato sulla storia della sua città, mi fa notare che l’architetto qui fu italiano come me: Battista Antonelli, un romagnolo di Gatteo (Forlì) incaricato dal governo spagnolo di concepire un sistema di fortificazioni per tutto il Caribe, nella seconda metà del Cinquecento. In seguito ho scoperto che non solo Antonelli ha costruito il sistema difensivo di Portobelo ma anche tante altre fortezze, a partire da San Lorenzo, all’imboccatura del Rio Chagres, fino al Morro de los Tres Reyes, l’imponente fortilizio de L’Avana, Cuba.
A Cartagena de Indias, Campeche, Veracruz, in decine di altri porti e punti strategici, dinanzi a queste rocche scure e squadrate, sotto queste mura (quasi) inespugnabili, si comprende la posta in gioco: le ricchezze di questo continente, soggetto per secoli a spoliazione sistematica, in stato di diritto, da parte dei colonizzatori, con miniere, stermini, schiavitù e scudiscio. Loro avversari, ma non per questo dalla parte degli sfruttati, i fuorilegge, perennemente a caccia di bottino con arrembaggi, sequestri, rapine e assalti.
Mentre Felipe si distrae con altri turisti, mi torna alla mente l’impresa forse più ardita che un corsaro abbia mai concepito: la presa e la distruzione di Panama da parte del famigerato Henry Morgan, nel 1671. Si racconta che nei periodi buoni sui moli panamensi venissero allineati centinaia di pesanti lingotti d’argento e d’oro provenienti dalle miniere andine e dai gioielli della dinastia Inca. La città prendeva vita solo qualche mese l’anno, all’arrivo del carico, ma allora diventava il centro del mondo.
Con un’opera diplomatica degna d’uno statista, Morgan mise insieme un enorme esercito di scalmanati per prenderla d’assalto. Di sorpresa sbaragliò le difese antonelliane e poi attraversò l’istmo a piedi. La città, sguarnita per superbia, fu saccheggiata e rasa al suolo. Fu poi rifondata a una decina di chilometri dall’originale, ma io preferisco aggirarmi tra le rovine di Panama Viejo: una chiesa scoperchiata, un campanile e qualche altro edificio tra i ficus. Serve molta immaginazione per percepire la passata grandezza. Il corsaro Morgan, di fatto uomo del governo britannico sotto mentite spoglie, fu arrestato pro forma dagli inglesi e spedito a Londra, dove però fu accolto come eroe nazionale.
Prima dell’epidemia di Covid-19 il Caribe era un paradiso turistico. Oggi i chioschi di paglia attendono invano i visitatori nelle spiagge bianche orlate di palme. E tuttavia, senza la consueta animazione mondana, è più facile immaginare storie di mappe, risse, uncini e barili di rum… Tutto il leggendario apparato riprodotto in film e romanzi, dal Corsaro Nero al più noto Jack Sparrow disneyano.
Nel nostro mondo, i pirati ci sono ancora, eccome: nelle Seychelles, nel Golfo di Aden, nello Stretto di Malacca… Un giro d’affari miliardario, proprio come ai bei tempi, per questo mestiere antico come la navigazione. Ma il Caribe resta la matrice, il luogo degli inizi, dove il nostro immaginario dei pirati ha preso la sua forma definitiva.