Dal 17 agosto sulla Max-Reinhardt Platz (intitolata al grande regista ebreo, padre fondatore del Festival), sono state incastonate 28 pietre commemorative in suffragio di musicisti, registi e attori che presero la via dell’esilio dopo l’Annessione dell’Austria nel 1938 o che furono assassinati nei campi di sterminio nazisti. Sono quasi 500 le pietre della memoria che nella città di Salisburgo ricordano anche altre categorie di sterminati: omosessuali, rom e sinti, testimoni di Geova, oppositori politici, reduci della guerra di Spagna, lavoratori forzati, vittime dell’eutanasia e dell’odio, due monaci benedettini.
I Ventotto di Piazza Reinhardt sono figure che hanno segnato la nascita e i primi vent’anni di vita del Festival. Fra questi compaiono nomi celeberrimi come quelli del direttore d’orchestra italiano Arturo Toscanini e del suo collega tedesco Erich Kleiber, entrambi non ebrei ma oppositori del totalitarismo nazista, fermi nella condanna della persecuzione che già umiliava con aggressioni, confische, allontanamenti chiunque appartenesse alle razze inferiori. Toscanini e Kleiber non cedettero di un passo alle blandizie del regime, solidali con un altro loro collega, non meno famoso e amato a Salisburgo, Bruno Walter, «emigrato» forzato in America.
Tanti celebri cantanti ebrei (Lotte Lehmann, Elizabeth Schumann, Alexander Kipnis) rimasero al Festival fino all’ultimo, poi fuggirono. Come molti membri della compagnia teatrale di Reinhardt, come l’attore Alexander Moissi, popolare fra le due guerre come Caruso e Rodolfo Valentino e ammirato da Kafka, Zweig e Werfel, primo Jedermann di Hugo von Hofmannstahl, la «moralità» teatrale che da sempre apre il Festival sulla piazza davanti al Duomo di Salisburgo. Fu vittima di una campagna denigratoria brutale: bastò cominciare a definirlo «ebreo», nonostante fosse di origine italo-albanese, nato nella Trieste austroungarica, per defenestrarlo da Salisburgo.
Moissi morì nel ’35, a Vienna – alle esequie non ufficiali suonarono un Adagio beethoveniano il primo violino della Filarmonica di Vienna, Arnold Rosé e Walter. L’Italia fascista e il re Zog d’Albania offrirono una cittadinanza che arrivò tardi: le sue ceneri trovarono accoglienza nel cimitero di Morcote, secondo indicazione di Moissi che vi aveva soggiornato nelle ultime estati.
Fra i nomi da non dimenticare, c’è quello soprannominato della «spalla» della Filarmonica di Vienna, Arnold Rosé, cognato di Gustav Mahler, la cui figlia Alma violinista già affermata e coraggiosa, catturata in Francia dove suonava per sostenere il padre esule a Londra, venne assegnata dalla famigerata «Bestia» di Auschwitz, Maria Mandel, all’orchestra femminile. Morì nel ’44. Sul suo cadavere il Dr. Mengele ordinò un prelievo spinale, tanto che una compagna sopravvissuta sintetizzò la sua vita: «Gustav Mahler alla sua culla; Josef Mengele alla sua tomba».
Destino che toccò a un altro membro del celeberrimo Quartetto Rosé, il secondo violino Julius Stewka, ucciso con tutta la famiglia a Theresienstadt. Il vecchio Rosé, vedovo e senza figlia, continuò a suonare durante la battaglia d’Inghilterra alla National Gallery e alla Wigmore Hall insieme al compagno di quartetto, il violoncellista Friedrich Buxbaum, anch’egli espulso a suo tempo dalla Filarmonica, dall’Opera e dal Conservatorio di Vienna. Quando Buxbaum andò sentire la Filarmonica in tournée a Londra dopo la guerra, lasciò un amaro messaggio agli ex-colleghi: «Cari amici, sono molto contento di essere stato con voi. Il suono era puro – completamente purificato dagli ebrei».