L’artista giapponese Michikazu Matsune (M. Pramatarov)

L’impareggiabile emozione di esserci

by Claudia

Decostruire per ricostruire, questo è il mantra pronunciato più volte da Claude Ratzé, direttore del sempre accattivante festival pluridisciplinare di Ginevra La Bâtie. Una presa di posizione necessaria per permetterci ancora di sognare malgrado l’imperativo del distanziamento sociale. Coniugare, in un contesto distopico come quello che stiamo vivendo, caratteristiche proprie a un festival delle dimensioni di La Bâtie (un’affluenza massiccia di pubblico, artisti internazionali, e spostamenti intercomunali e transfrontalieri) e imperativi sanitari sono le sfide che attendono ogni operatore/rice culturale.

Quello che è certo è che, sebbene stravolta, adattata e ricostruita, la versione 2020 e Covid-compatibile del festival ginevrino non ha perso nulla del suo carattere sperimentale, audace ed emozionante; un’emozione che si è letta sui volti degli artisti che l’hanno animata. Mai come quest’anno gli occhi hanno brillato e le mani hanno tremato dalla gioia di ritrovare la scena, il solo luogo che molti artisti possono chiamare casa. È lì infatti che le vere barriere cadono per dare spazio a quella parte oscura di noi stessi che abbiamo tremendamente bisogno di lasciar esprimere.

Se per tanti le pressioni sociali erano già numerose prima della pandemia, oggi queste diventano davvero insopportabili, come se le crepe che già esistevano si fossero allargate pericolosamente, lasciando scoperta la parte più vulnerabile di noi. È proprio affinché queste crepe possano schiudersi in modo costruttivo che festival come La Bâtie devono esistere. Durante diciassette giorni scanditi dal ritmo di cinquanta avvenimenti (teatro, danza e performance, visto l’annullamento, all’ultimo minuto, della quasi totalità dei golosi concerti previsti), artisti e pubblico hanno potuto esprimere la propria fragilità che si è trasformata nel leitmotiv dell’edizione 2020.

Ad aprire le danze è stato il magnetico coreografo statunitense Trajal Harrell con un assolo: Dancer of the Year, estremamente personale ed emozionante. Libero dalla provocazione che marca a fuoco i suoi lavori, Dancer of the Year si concentra sull’essenziale: le sensazioni che attraversano il corpo mentre danza, mentre si appropria dei gesti, dei costumi e delle mimiche dei propri personaggi, estranei eppure parte di noi. Dopo aver ricevuto, nel 2018, il titolo di ballerino dell’anno dal prestigioso magazine «Tanz», il coreografo è stato assalito da una valanga di interrogativi che hanno dato vita a una danza intima e maestosa, personale e impregnata di un’eredità antica.

Con Dancer of the Year, Trajal Harrell rimescola le carte della propria carriera, confonde le piste facendoci allontanare da ogni forma di dualità: di genere, razziale, sociale. Un assolo attorniato dai decori barocchi del magnifico Grand Théâtre di Ginevra.

Solo su una scena che occupa interamente, ritroviamo anche il maestro del flamenco contemporaneo Israel Galván. Con il suo Solo, ma soprattutto attraverso il suo intrigante El amor brujo, capolavoro (stravolto) del patrimonio culturale iberico, il ballerino spagnolo ci propone una danza lontana anni luce dai clichés che la imprigionano. Vestendo i panni della gitana Candela, Israel Galván ci regala l’essenza stessa del flamenco: universalmente forte e fiera.

Terzo rappresentante d’una mascolinità finalmente libera dai vincoli di una sterile virilità, il giapponese Michikazu Matsune con un one man show (Goodbye) squisito e violento, durante il quale legge una serie di lettere d’addio: da quella di Kurt Cobain fino ad arrivare alle diciotto pagine di consigli che l’imperatrice Maria Teresa d’Austria dà a sua figlia Maria Antonietta sul punto di sposarsi e dalle quali, ironicamente, il performer ci preserva.

Ciliegina sulla torta di un’edizione all’insegna dell’emozione, le immancabili passeggiate nel cuore del verdeggiante bosco della Bâtie hanno permesso a cinque gruppi di spettatori di gustare cinque mini concerti (di quindici minuti) di gruppi folk svizzeri: gli zurighesi Alas The Sun e Kush K, i ginevrini Prune e Quiet Island e la losannese Billie Bird. Un momento davvero magico di comunione con la natura che ci fa sperare in un futuro pieno di eccitanti e catartici momenti condivisi.

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