Philippe Daverio: l’arte con il papillon

Gli occhialetti tondi e il farfallino appariscente erano gli immancabili accessori del suo look da dandy. A questi si accompagnavano uno sguardo sagace e un sorriso bonario che lasciavano chiaramente trapelare la sua intelligenza, la sua curiosità e la sua ironia. Così si presentava Philippe Daverio: davanti a una telecamera o a passeggio per la città, il suo modo di mostrarsi alla gente era la perfetta miscela di uno stile ricercato d’altri tempi e di una condotta cordiale e comunicativa.

Storico dell’arte, gallerista e scrittore, nonché politico, Daverio era nato a Mulhouse, in Alsazia, nel 1949, da padre italiano e da madre francese. Quarto di sei figli aveva ricevuto una rigida educazione presso un collegio episcopale per poi proseguire gli studi alla Scuola Europea di Varese, città a cui è sempre rimasto molto legato. La sua formazione è poi proseguita a Milano, come studente alla Facoltà di Economia e Commercio della Bocconi.

Non si era però mai laureato, Daverio. Pur avendo dato tutti gli esami, aveva deciso di non discutere la tesi, perché, come più volte aveva avuto modo di affermare, «in quegli anni si andava all’università per studiare e non per laurearsi». Convinto che ad attestare il sapere di una persona non fosse un pezzo di carta ma l’inesausto desiderio di conoscere, con la sua laurea accantonata in dirittura d’arrivo Daverio sfoderava già quel gusto per la provocazione che lo ha reso unico, quella voglia di trasgredire, sempre con garbo, che è stato uno dei tratti distintivi della sua esistenza.

Entrato nel mondo dell’arte, da cui fin da piccolo era stato affascinato, lui, che storico dell’arte non era, aveva subito dimostrato di saperne più di tanti suoi colleghi accademici, e la sua grande cultura non era messa in dubbio da nessuno.

Ciò che lo rendeva diverso dagli altri studiosi era proprio il suo piglio affabile e coinvolgente, quello di chi non si mette in cattedra per insegnare ma di chi ha piacere a raccontare con semplicità le tante espressioni del bello. Agli occhi della gente questo approccio gli era valso il ruolo dell’amico colto piuttosto che quello dell’erudito. Ed è stata la sua forza. Non per niente Daverio veniva fermato per strada dalle persone di ogni classe sociale che chiacchieravano con lui senza sentirsi in soggezione.

Quel tono amichevole, quasi confidenziale, era il suo marchio di fabbrica e caratterizzava tanto le sue trasmissioni televisive quanto le sue pubblicazioni. Era la chiave per far comprendere e apprezzare l’arte soprattutto a chi a essa era poco avvezzo, a chi storceva il naso solo a sentire la parola museo.
Alla ricerca dei dettagli più nascosti, Daverio considerava l’Italia un immenso tesoro mai abbastanza conosciuto, per questo il suo lavoro è sempre stato volto a scoprirne e mostrarne tutte le bellezze, diventando per il suo pubblico un piacevole e brioso Cicerone.

A Milano, in via Monte Napoleone, aveva inaugurato nel 1975 la sua prima galleria d’arte, occupandosi perlopiù di correnti avanguardistiche di inizio Novecento. Una decina di anni dopo era stata la volta di New York, dove una sua nuova sede espositiva trattava artisti del XX secolo. Ancora nella città meneghina Daverio apriva nel 1989, in Corso Italia, un’altra galleria d’arte contemporanea.

Eclettico animatore della vita intellettuale del capoluogo lombardo, qui, nel 1993, aveva ricoperto anche l’incarico di assessore all’Educazione e alla Cultura, non senza suscitare, in varie occasioni, grandi polemiche (molte mamme milanesi, ad esempio, lo ricorderanno per la famigerata querelle sugli asili nido, in cui Daverio le tacciava provocatoriamente di non volersi occupare dei propri figli a causa delle loro proteste per le lunghe liste d’attesa).

Numerosi, poi, i cataloghi pubblicati, tra cui si possono menzionare quelli ragionati dell’opera di Giorgio de Chirico e di Gino Severini, le collaborazioni con riviste e quotidiani (da «Panorama» a «Il Sole 24 Ore», dal «Touring Club» al «National Geographic», solo per citarne alcuni), e i libri, usciti soprattutto per i tipi della casa editrice Rizzoli, tutti scritti con uno stile fresco e graffiante e con un punto di vista originale.

A lui si devono inoltre la ricostruzione del Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, danneggiato nel luglio del 1993 dall’esplosione della bomba di via Palestro, la riapertura di Palazzo Reale e l’ampliamento del Teatro alla Scala.

A dimostrazione di quanto fosse un instancabile paladino del patrimonio artistico italiano non soltanto con le sue avvolgenti affabulazioni, nel 2011 Daverio aveva fondato il movimento d’opinione «Save Italy», il cui obiettivo era proprio quello di salvaguardare la smisurata eredità culturale del Belpaese formulando proposte concrete. Attraverso questa organizzazione era riuscito, con una grande manifestazione, a bloccare il progetto di una discarica nelle immediate vicinanze di Villa Adriana a Tivoli.

L’esperienza che più di ogni altra lo ha fatto apprezzare dalla gente è stata però la trasmissione televisiva Passepartout andata in onda dal 2001 al 2011, un programma seguitissimo (non di rado superava il milione di ascoltatori) in cui Daverio entrava nelle case degli italiani catturandoli con i suoi insoliti percorsi nelle vie dell’arte. Con quello che ormai veniva definito «il metodo Daverio», signorilità unita a leggerezza e sarcasmo, sapeva narrare le meraviglie artistiche in maniera tutt’altro che banale.

Divulgatore era l’appellativo che gli calzava a pennello, poiché con il suo eloquio frizzante instaurava un contatto quasi ipnotico con lo spettatore, soprattutto quando, per fare il punto della situazione, appariva seduto alla scrivania con una delle pagine cancellate di Emilio Isgrò sullo sfondo. Daverio affidava così con complicità al pubblico le sue considerazioni penetranti, abilissimo nel tessere il racconto artistico incrociandolo con la storia politica e sociale.

Con ancora molti progetti da realizzare, Philippe Daverio è morto all’età di settant’anni lo scorso 2 settembre presso l’Istituto dei Tumori di Milano, dove lottava da tempo contro un cancro. Tra le sue tante riflessioni sull’esistenza ci piace citare questa, forse perché più di altre racchiude la sua capacità di esprimersi su concetti profondi in maniera chiara ed elegante: «La vita è come un quadro, pieno di pennellate che vanno nel verso giusto, ma ce n’è sempre una che, nonostante l’attenzione del pittore, esce dai confini, macchia il pavimento: ecco, quella è la morte, ineluttabile, fatale, uno strascico blu nell’infinito magniloquente e fantasmagorico, un’esplosione oltre la cornice che tutti vivremo, polvere barbaramente bistrattata quantunque paventasse un volo pindarico».

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