Trajal Harrell è un artista camaleontico, inafferrabile e affascinante che riesce ad impossessarsi della scena come se la sua vita ne dipendesse. Che si tratti di danza post moderna, voguing, hoochie coochie o ancora di butoh, Trajal affronta la storia della danza attraverso il prisma della sessualità, dei generi e dell’appartenenza razziale. Quello che gli interessa è confrontare il pubblico con una storia che necessita di essere rivisitata e riletta da un punto di vista diverso, ribelle e outsider.
Cosa lui, in quanto coreografo, rappresenti per la danza e cosa la danza rappresenti per lui: sono queste le domande essenziali alle quali tenta, attraverso la sua arte, di rispondere. Il suo stile è unico, miscela improbabile di generi che possono essere percepiti come molto distanti tra loro (basti pensare al voguing e al butoh) ma che si amalgamano grazie a una dose salvifica di fragilità e humor. Chi è realmente Trajal Harrell? Chi si nasconde dietro a un artista diventato ormai essenziale al punto che tre anni fa il Barbican Arts Center di Londra gli ha dedicato una retrospettiva?
Nato in una piccola città nel sud della Georgia (USA), Trajal Harrell ha scoperto il mondo della danza un po’ per caso, di nascosto, un «guilty pleasure» che lo ha da subito catturato come una trappola dalla quale è impossibile fuggire. Quando aveva otto anni quello che amava era rimanere in palestra a spiare le lezioni di danza che si svolgevano dopo i suoi corsi di ginnastica, un mondo a lui estraneo fatto di rituali condivisi e corpi costretti in movimenti ripetitivi che ai suoi occhi risultavano estranei e poetici. È forse da ricercare in queste visioni rubate il germe della sua passione per la danza, una passione che l’ha spinto a seguire i suoi sogni malgrado il fatto che in Georgia «i ragazzi non frequentano i corsi di danza».
Trajal è stato da sempre animato dalla volontà di andare contro le convenzioni: di genere, di sesso, di razza e di classe per costruire qualcosa di nuovo, di personale, al contempo stravolgente ed esteticamente rigoroso. Con i suoi lavori vuole spingere il pubblico a credere nell’impossibile, nel potere della danza in quanto strumento di cambiamento verso un mondo nel quale i concetti di esotismo, colonialismo, sessismo e razzismo sono decostruiti e mostrati in tutta la loro grottesca assurdità. Nell’universo del nostro coreografo statunitense la storia, la ricostruzione di un passato che da reale si trasforma in utopico, occupa un posto centrale.
A partire dalla serie di otto coreografie Twenty Looks or Paris is Burning at The Judson Church che l’ha proiettato sul davanti della scena trasformandolo nel gioiellino della New York underground (nel 2012 vince niente meno che il prestigioso Bessie Award), l’analisi storica della danza l’ha guidato e spinto verso una sperimentazione sempre più audace. Declinato in differenti formati che vanno dalla taglia XS alla XL, Twenty Looks affronta la storia della danza attraverso la messa in parallelo di due realtà in apparenza contrapposte: quella dell’America «arty» bianca, borghese e sperimentale del Judson Dance Theatre che si pone l’obiettivo di analizzare la danza dal punto di vista politico, e quella decisamente più libera, sgargiante e underground della comunità afroamericana e latina LGBTIQ del voguing nella quale lo spettacolo domina sovrano.
Trajal mette a confronto due realtà in apparenza antitetiche che non si sono mai veramente incontrate estrapolandone la magia e la forza del gesto primitivo, carico di significato e libero dalle convenzioni. Grazie a una coreografia energica e potente che non consente tempi morti e a cambi di costumi repentini simili a una corsa a ostacoli dai colori flashy, Trajal ci trasporta nel suo mondo fatto di Storia (con la S maiuscola) ma anche di struggente intimità. Il passato si trasforma in presente attraverso il suo corpo, l’impossibile si intreccia con il possibile in un duetto improbabile tra vulnerabilità e rivendicazione politica. Grazie a Twenty Looks il concetto di «verità» caro al voguing si amalgama con quello postmoderno di «autenticità» ricercato dal Judson Theatre, come a volerci mostrare che la danza ha il potere di unire quello che tutto sembra separare. L’immaginazione che permette di sognare dei mondi possibili al di fuori delle convenzioni è vista da Trajal come strumento fondamentale per vivere insieme, in armonia malgrado le differenze culturali e i preconcetti.
Il pubblico svizzero ha potuto gustare Dancer of the Year una delle sue ultime performance, al Festival la Bâtie di Ginevra («Azione» 14 settembre 2020, NdR) e The Köln Concert alla Schauspielhaus di Zurigo.
Dopo essere stato nominato nel 2018 dal «Tanz magazine» ballerino dell’anno, Dancer of the Year gli ha permesso di porsi delle domande cruciali sulle origini del gesto creativo, sull’eredità che esso porta con sé e sul suo valore in quanto merce di scambio.
Per Dancer of the Year il coreografo statunitense si è interessato alla potente danza giapponese butoh e più in particolare a uno dei suoi maggiori esponenti: Tatsumi Hijikata, che spingeva i suoi ballerini a esibirsi nei night club per guadagnarsi da vivere. Sulla scena del Grand théâtre di Ginevra Trajal ripete gesti che sono iscritti nel suo corpo, rivisita movimenti e materiale delle sue precedenti coreografie in un sovrapporsi di emozioni che sembrano infinite. Più la coreografia avanza, più il corpo del coreografo sembra svuotarsi, stremato dallo sforzo.
Trajal condivide con noi la sua fatica, ci dona la sua danza in regalo come a volerci ricordare che nulla è impossibile e che i limiti che ci imponiamo non sono in fondo che nella nostra testa.