«Chi dice una parolaccia contro la mia mamma, lo aspetta un pugno! Ma è normale! Non si può provocare. Non si può insultare la fede degli altri. Non si può prendere in giro la fede».
Sono almeno tre o quattro i tipi di libertà di stampa di cui si occupa con ricchezza di documentazione Pierluigi Allotti in questo La libertà di stampa. Dal XVI secolo a oggi, appena pubblicato nelle edizioni del Mulino. Quella storica, conquistata a fatica insieme ad altre libertà e affrancata dai poteri politici che l’hanno afflitta nei secoli; quella ancora non del tutto raggiunta, piegata com’è da intolleranze e fondamentalismi che entrano con i fucili nelle redazioni dei giornali satirici; una sorta di nuovo regime, dettato dal politicamente corretto, che spesso non lascia fiato a chi scrive, perseguitato dai «blogger che ci bacchettano come maestrine» perché non rispettiamo le morfologie di genere e le prescrizioni del linguaggio corretto.
Più indiretti sono i condizionamenti dovuti a certi vizi della grande editoria, quando questa oltre che monopolistica sia illiberale e irresponsabile; anche qui la libertà è asfittica e non riesce a esprimersi appieno. Oppure l’abuso di liti temerarie per diffamazione, che tendono a inibire l’azione dei giornalisti.
Il libro è scandito da capitoli-data, che ci dicono che la libertà di stampa ha spesso una sua geometria-geografia variabile e che gli stati nazione sono arrivati chi prima e chi dopo (qualcuno ancora arranca a fatica) alla conquista di libertà e democrazie. Così, «Londra 1695» (abolizione del regime di censura preventiva), «Parigi 1789» (Rivoluzione francese), «Filadelfia 1798» (discussione al Senato del Sedition Act, «una legge che autorizzava di fatto a perseguire chiunque contestasse il governo»); ma anche «Il Quarantotto» (morte di Chateaubriand) e «Il Sessantotto» (il Sessantotto), fino a giungere, in conclusione, a «I nemici di oggi».
All’inizio, più che a un’opera organica si sarebbe tentati di pensare dunque a una serie di monografie localizzate, geograficamente e storicamente, con temi a volte non proprio omogenei; poi, però, la sequenza ci fa pensare appunto a una diversa velocità, una serie di conquiste storiche più isolate che universali, dettate spesso dagli equilibri politici interni più che da mentalità condivise, e all’approdo, solo infine e con la globalizzazione, verso tematiche comuni: la «finta libertà» del web, il ruolo diminuito dei poteri statali, ancora il politically correct.
Il materiale documentario è ricchissimo. Così, valgono per esempio il prezzo di copertina le pagine dedicate a John Milton e ai suoi interventi sulla libertà di stampare libri in Inghilterra all’altezza della metà del Seicento: «i libri non sono cose morte, bensì cose contenenti in sé una potenza di vita che li rende tanto attivi quanto quello spirito di cui sono la progenie. È quasi uguale uccidere un uomo che uccidere un buon libro. Chi uccide un uomo uccide una creatura ragionevole, immagine di Dio; ma chi distrugge un buon libro uccide la ragione stessa».
E poi, nel capitolo sul Sessantotto si rende conto del civilissimo studio affidato ad Angelo Del Boca (successivamente eroe della ricerca scientifica sulle malefatte italiane nell’Africa orientale) volto a definire le caratteristiche di una crisi dei quotidiani all’epoca, con incursioni e viaggi in tutto il mondo; Del Boca sentì anche l’allora direttore della «Neue Zürcher Zeitung» Edmund Richner in mezzo a molti altri e definì la stampa italiana sull’orlo di una sorta di «tramonto del quotidiano», esito poi per qualche decennio almeno attenuato.
L’autore ci ricorda che l’idea di questo libro risponde alla necessità di celebrare l’opera di un eroe della libertà di stampa in Italia, il liberaldemocratico Mario Borsa, che nel 1925, all’inizio del buio periodo mussoliniano, pubblicò in duemila copie un libro intitolato La libertà di stampa, omaggiato ora dall’omonimia del titolo.