Grovigli e rivoli per una lettura stimolante: il nuovo romanzo di Tommaso Soldini è anche sfida
Ci sono libri più necessari di altri, anche se ogni autore difenderà sempre la propria, personalissima – dunque indiscutibile – necessità. I libri, però, fortunatamente, hanno una vita che va ben al di là di chi li realizza, e rispetto a chi scrive sono quasi sempre più ricchi e profondi. Così, quando un libro combatte, tentando a tutti i costi di muoversi fra le maglie di una realtà e dei suoi abitanti, sgomitando per venirne a galla, sbattendo ripetutamente contro gli spigoli, ebbene: quel libro acquisisce presto una certa indipendenza, comincia a racchiudere non una ma più voci, e diventa forse più necessario di altri.
Il romanzo L’inguaribile di Tommaso Soldini, uscito all’inizio dell’anno per Marcos y Marcos, non smette di combattere un solo istante. Ogni pagina è destinata a scontrarsi contro gli strati di un mondo frastagliato e poco prevedibile, costruito sfacciatamente in un futuro vicinissimo (2024-25) che tanto sa di presente alternativo. E proprio per questo sollecita – quando non provoca – il lettore, che presto si trova invischiato fra le fitte maglie narrative, costretto a prendere posizione e a fare i conti con la propria coscienza. Inutile girarci intorno, il libro non può lasciare indifferenti: o ci si sporca le mani, o si esce sconfitti.
Il protagonista è Michele Incassa, giornalista d’inchiesta dai metodi creativi e apparentemente poco consoni, che viene lasciato dalla moglie Gemma nelle prime pagine del libro, al culmine di una scena vertiginosa ed emblematica: durante la lettura serale alle due figlie, in quel bozzolo d’intimità familiare che sembra inscalfibile, i personaggi raccontati dai genitori diventano degli alter ego per un regolamento di conti definitivo. Incassa – e per tutto il libro non ci si potrà dimenticare che nomina sunt omina, anche a costo di perdere delle lettere per strada, come succede alle iniziali dei luoghi – si trova dunque solo, per motivi che fatica a comprendere o digerire, finché una donna con un cappello rosseggiante entra nello swinger club La Petite Princesse, e lui non può che partire al suo inseguimento.
Sotto quel cappello, infatti, sembrerebbe celarsi Gemma («si era fatta riconoscere apposta», secondo lui). Il romanzo si dipana allora in più rivoli narrativi, dalle esperienze oniriche del club alle avances della collega di lavoro Giorgia, e ancora – soprattutto – alle ricerche giornalistiche su un caso giudiziario legato a tale Roby Ratter, nota personalità con inclinazioni neonaziste che viene arrestato per aver tentato di uccidere un amico dopo averlo truffato per anni.
La ricostruzione minuziosamente fantasiosa che Michele Incassa riesce a proporre del «caso Ratter» è forse la più esplicita dimostrazione di come L’inguaribile offra una visione complessa e profonda del paradossale rapporto fra realtà e finzione, o addirittura verità e finzione. Non più bovarismo (e del resto come non riconoscere incastrato nel nome di Gemma anche quello ingombrante della signora Bovary), ma un mondo in cui l’ibridazione fra i diversi piani è già data per acquisita.
La finzione non è soltanto nutrimento per la realtà: la finzione è realtà. Come quando, ed è già successo a tutti, ci si accorge «che il cervello, in alcuni magici casi, smette di credersi causa della realtà». Una scommessa naturalmente ambiziosa poiché disturbante, per il lettore e per gli stessi personaggi del romanzo, eppure specchio di un’esigenza a dir poco stringente, veicolata formalmente da una sarabanda di invenzioni linguistiche e sintattiche, flussi nevrotici di citazioni più o meno dotte, o ancora una serie ossessiva di note a piè di pagina che come rivoli narrativi aprono e a loro volta richiudono altre storie.
Un romanzo «inevitabilmente» eccessivo, verrebbe da dire, di una densità stilistica e tematica che ricorda – al di là del riferimento dichiarato a David Foster Wallace – alcune esperienze del cosiddetto «realismo isterico», espressione coniata da James Wood in un saggio sullo splendido Denti bianchi di Zadie Smith. Certo si tratta di un’esperienza immersiva e dalla franchezza cristallina: la letteratura non è un accessorio. Ed essere dentro la letteratura, pur con i suoi rischi e le sue derive, significa essere dentro la vita.