Fare cose con le parole e fare parole con le cose. Il valore performativo del discorso d’odio nell’ultimo libro di Federico Faloppa
«Allora credo che promuovere una cultura, una legislazione, un’organizzazione sociale, per la convivenza pluriculturale, plurietnica, diventa, oggi, uno dei segni distintivi della qualità della vita, una delle condizioni per poter avere un futuro vivibile».
La nozione di hate speech «discorso d’odio» è recente e problematica. E sono giovani anche gli studi su quella complessa escalation di fenomeni e comportamenti che, con sviluppo piramidale, sale da una base relativamente ampia rappresentata dagli stereotipi verso l’altro, in direzione di un livello superiore di discriminazione attiva («Qui non puoi stare», «Non serviamo cinesi»), a un vertice di legittimazione dell’odio verbale e, ancora più su, del crimine.
Con questo #Odio. Manuale di resistenza alla violenza delle parole il linguista piemontese-inglese Federico Faloppa si accredita come il massimo esperto italiano della comunicazione dell’odio (ma c’è, ora, un nuovissimo Insultare gli altri del pragmaticista Filippo Domaneschi, che andrà letto). Al centro di questa opera, che colpisce per la sua completezza e per le «frontiere» che indica, c’è il valore performativo del linguaggio: il fatto che pronunciando alcune espressioni non solo si dice qualcosa ma si fa qualcosa, si producono delle conseguenze nell’interlocutore, facendo di solito del male. L’elenco va dall’incitamento verso terzi a realizzare azioni aggressive alle ricadute psicologiche («la psicologia sociale e la pragmatica linguistica ci dicono che, dal punto di vista delle conseguenze, una parola può da sola far male tanto quanto un’azione») e alla percezione del messaggio violento. Che può riguardare la persona cui l’insulto è indirizzato, ma anche interi ambienti socioculturali non necessariamente i bersagli primi dei messaggi.
Il linguaggio d’odio si combatte con differenti mezzi, variabili nelle differenti realtà nazionali. Il discorso sui mezzi con i quali affrontarlo ci porta spesso a crocevia critici di una tradizione nazionale, di una cultura, a partire dai mezzi giuridici messi in campo: il codice penale, il civile, la discussione sulle libertà fondamentali, il discusso emergere del politicamente corretto. Colpisce molto, a prima vista, la giurisprudenza statunitense, che a fronte di questi fenomeni mette puntualmente avanti il Primo emendamento della Costituzione, che non esita a privilegiare la libertà di espressione e promuovere il cosiddetto marketplace of ideas: l’argomentazione piuttosto che l’azione giudiziaria.
Il livello linguistico è ovviamente prevalente, e lì è il lessico il padrone di casa; il cuore di questo libro elenca le categorie lessicali più praticate, dalle parole esplicite e rumorose, a quelle più subdole, che nascondono l’odio o che, apparentemente neutre, sono spesso pregne di una lunga vicenda storica (negro, per buona pace degli autori di improbabili ragionamenti etimologici della domenica, è e resta parola colpevole). Anche la forma delle parole ha già una sua collezione di possibilità di ferire e offendere: suffissi come –astro, -aglia, -uncolo, -oide incidono su materiale lessicale normale per aggiungere valori misurabili di odio. Sopra tutti però, ancora, è il livello performativo del linguaggio: quello che dico diventa quello che di conseguenza faccio.
Il libro propone una documentata rassegna delle principali direzioni di studio sullo hate speech. Per esempio, se parlare in questo modo faccia male a uno o nuoccia a tanti. Se lo sbarco sull’online sia una semplice questione di numeri o se, come probabile, ci sia eccome dell’altro. Come funzionano gli algoritmi che si ripromettono di epurare il linguaggio violento online ma spesso incappano in usi neutri o addirittura amaramente ironici e finiscono per censurare quelli. Quali siano i meriti che resistono della recentemente e da molti massacrata attenzione al linguaggio politicamente corretto. Il libro è scientificamente impeccabile, molto leggibile, attento a una concreta funzione civile.