Hilmi Nasser c’est moi

Ho conosciuto Dorit Rabinyan, scrittrice e sceneggiatrice di origini iraniane (classe 1972) a un seminario tenutosi a Gerusalemme nell’estate del 2016. Per l’occasione il prestigioso istituto culturale Mishkenot Shaananim aveva riunito un folto gruppo di traduttori provenienti da diversi paesi del mondo affinché ci confrontassimo sulla traduzione dall’ebraico del libro Borderlife insieme all’autrice e ai traduttori originali.
In netto contrasto con l’atmosfera pastorale gerosolimitana questa volta Dorit mi propone di incontrarla all’ora dell’aperitivo in un bar alla moda situato sulla Allenby, una delle vie storiche di Tel Aviv che più ha mantenuto intatte le sembianze mediorientali, non senza una discreta dose di squallore.
Dorit, hai cominciato a scrivere durante il servizio militare. Era un desiderio che coltivavi sin da piccola?
No, direi piuttosto che in principio mi sono rivelata una lettrice operosa, di quelle che hanno l’abbonamento alla biblioteca municipale. Investivo molto leggendo ogni libro almeno due volte: la prima mi facevo conquistare dalla magia e la seconda cercavo di capire al rallentatore il meccanismo che vi stava dietro.
Hai scritto il primo libro, Le spose persiane, quand’eri molto giovane.
Ho scritto il libro quando avevo appena ventun anni, il che è da considerarsi abbastanza fenomenale. Tuttavia non la definirei un’«urgenza di comunicare». Ero una bambina autentica, ma abbastanza simbiotica con i genitori e desiderosa di compiacerli. Penso che il movente del mio primo romanzo vada ricercato nel tentativo di ricompensarli, di risarcirli attraverso il riflesso dell’immagine del loro ambiente d’origine, così come è giunto a me. La nostalgia diasporica a me pervenuta e da me assorbita nel corso dell’infanzia si aggrappava a elementi semplici quali la grandezza delle mele, la fontana nel patio o il fiume dove pescavamo. Così ha preso forma in me il mito della patria perduta.
L’Iran dei tuoi primi libri è molto diverso da quello che ci presentano serie tv israeliane come Teheran, che ripropone il modello dei servizi segreti già noto attraverso Fauda?
Io non sono cresciuta tra immigrati della diaspora iraniana bensì persiana. Le due denominazioni, Persia e Iran, differiscono profondamente l’una dall’altra. L’Iran rappresenta un’entità politica, mentre la Persia allude a un’identità culturale e letteraria che stimola l’immaginazione. Essendo cresciuta in una comunità che vanta una ricca e antica storia penso che la Persia che si cela dietro l’Iran somigli all’eredità biblica che si cela dietro l’israelianità.
La prudente censura del ministro dell’istruzione Bennet nel 2015 ha fatto un buon servizio di marketing al tuo romanzo Borderlife. A una lettura superficiale si potrebbe pensare che tu abbia osato molto nella trama del libro, dando prova di grande apertura. Tuttavia, una lettura attenta sembra rivelare il contrario. Ambientando il libro fuori da Israele e poi «uccidendo» il protagonista palestinese, confermi in qualche modo l’impossibilità dell’unione mista in Israele tra ebrei e palestinesi?
Quella della morte di Hilmi non è una «scelta letteraria» poiché il romanzo è ispirato alla storia dell’artista palestinese Hassan Hourani, un uomo che ho amato molto nel periodo in cui mi trovavo a New York. Non intendevo dunque trasmettere alcun «messaggio», bensì scrivere una sorta di lettera d’amore a Hassan, con il quale ho avuto una relazione profonda. Purtroppo, le cose sono andate esattamente così, e lui è annegato tragicamente.
Per quanto riguarda la «censura», la commissione artistica ha suggerito Borderlife tra i libri da inserire nel programma consigliato per l’esame di letteratura alla maturità, ma la commissione pedagogica ha respinto la proposta adducendo tra le motivazioni che il romanzo «attuale, persuasivo e coinvolgente» sarebbe pericoloso in quanto spingerebbe gli adolescenti all’assimilazione, invitandoli a rompere il tabù ebraico delle coppie miste. A mio parere invece, la radicalità che ha messo in crisi la commissione va individuata nell’umanità, nell’espressione di eguaglianza che annulla il divario tra occupante e occupato, che comunicano tra loro in inglese, lingua franca.
Come ti spieghi che il romanzo L’amante di A.B. Yehoshua (1977), in cui si consuma un amore tra il palestinese Naim e l’israeliana Daffy, abbia fatto parte del programma scolastico per almeno trent’anni?
Probabilmente se fosse uscito oggi gli sarebbe stato riservato lo stesso trattamento. È lo Stato d’Israele a essere cambiato, non Dorit ad aver scritto un libro audace o di denuncia. Al contrario, senza dubbio si tratta di un libro che interiorizza il conservativismo israeliano. Il personaggio di Liat ha interiorizzato i codici sionisti di «permesso» e «vietato», facendo proprio il recinto eretto per proteggere la società israeliana da quella palestinese e così separarle. Rimanere all’interno dei confini della propria identità ebraica, israeliana e sionista le consente di flirtare con Hilmi solo fuori dai confini della linea verde.
Rileggendo il libro sono stata conquistata dal personaggio di Hilmi al momento del suo ritorno in Palestina, quando prende in affitto una casa a Jifneh circondata da ulivi, noci, mandorli e peschi. L’immagine di Hilmi immerso in quella quiete bucolica è stata così terapeutica che nel rievocarla sento ancora il contatto della terra sulle mani.
Lo sforzo più grande è stato quello di vestire Hilmi di una personalità propria e il più possibile autonoma rispetto ai segni che l’occupazione lascia inevitabilmente su un giovane palestinese contemporaneo. L’ambientazione è riuscita forse perché tratta dalla realtà. Quando abbiamo fatto ritorno ognuno alla propria tribù, io sono tornata a Tel Aviv mentre Hassan è venuto in visita alla famiglia e ha affittato la casa di Jifneh. Nell’agosto 2003, dopo che Hassan è annegato, ho vissuto circa due settimane in quella casa per trascorrere il lutto con la famiglia. Benché si trattasse di una casa affittata per poche settimane, insieme alle sue opere vi era rimasto molto di lui, del suo rapporto con la terra in quel paese dalle pesche succose.
La conferma più preziosa di essere riuscita nel mio intento di onorare la memoria di Hassan mi è giunta poi attraverso la lettera di uno studente palestinese dell’Università di Bir Zeit che si è identificato in Hilmi al punto da scrivermi: «Hilmi Nasser c’est moi» come Flaubert in Madame Bovary
Affermare che si tratta di una storia vera è stato come ammettere pubblicamente di aver avuto una relazione con un palestinese.
La mia relazione con Hassan fa «rumore» solo quando vado a presentare il libro in ambienti israeliani più conservatori. A Tel Aviv nessuno si emoziona più di niente. La città bianca ha «sbiancato» anche gli arabi, annullando le differenze e accentuando l’indifferenza e il denial. Per contrastare questo fenomeno vado due volte l’anno a trovare la famiglia di Hassan a Ramallah. Penso che essere di sinistra significhi riconoscere che ebrei e palestinesi siano uniti nel destino e dipendenti e garanti gli uni degli altri.
Quando mi accomiato da Dorit al termine di questa lunga e densa conversazione ormai si è fatto buio. Nel constatare quanto lavoro vi sia dietro ogni romanzo mi rammento dell’affermazione di Yaakov Shabtai che paragonava le sue fatiche di scrittore all’atto di pulire la via Allenby con uno spazzolino da denti. Beh, è una via talmente larga, lunga e sporca che deve aver sudato molto le sue pagine.

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