A colloquio con i fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo, registi dell’osannato film Le favolacce
Abbiamo incontrato Fabio D’Innocenzo che ha firmato la regia del film Le favolacce insieme al fratello Damiano. Il film, prodotto in Italia da Pepito Produzioni e coprodotto da Amka Films e RSI ha avuto la sua anteprima svizzera allo Zürich Film Festival ed è uscito nelle sale ticinesi l’8 ottobre.
I fratelli D’Innocenzo hanno vinto il premio per la migliore sceneggiatura al festival di Berlino di quest’anno e Le favolacce ha ottenuto in Italia cinque nastri d’argento. Si tratta di un film che ha fatto scalpore per la sua perfezione tecnica e per la forza della storia che racconta, incentrata sui rapporti fra genitori e figli, sul vuoto educativo della società contemporanea occidentale e sulle sue conseguenze. Colpisce l’equilibrio magico tra realtà e favole, quelle dei fratelli Grimm, però.
Nel film è tragicamente fondamentale il ruolo della scuola. Puoi tracciare per noi il profilo del pessimo insegnante?
Un pessimo insegnante impedisce l’emancipazione del pensiero dei bambini e dei ragazzini. È fondamentale iniziare ad avere una conversazione intima con le proprie convinzioni fin dall’infanzia, a prescindere dagli insegnamenti che ci vengono impartiti a scuola. Un pessimo insegnante priva i suoi alunni della libertà di avere un punto di vista sul mondo.
Il film racconta l’assenza di ruoli nella famiglia: non c’è distanza fra i figli e genitori, anzi c’è una sovrapposizione. Per esempio, le ragazzine e i ragazzini cercano di vivere la sessualità come se fossero adulti e i genitori a loro volta si comportano da adolescenti.
Senza avventurarsi in analisi freudiane, sappiamo che il sesso è uno dei principali misteri della vita. Decifrare le nostre pulsioni sessuali ci spinge a confrontarci coi nostri traumi, anzi con la vita in tutti i suoi aspetti. Nel film i bambini provano a replicare quello che vedono dai loro genitori, ma diventano dei fantocci. Loro non desiderano il sesso, ma lo vedono glorificato, trasformato in merce di scambio fondamentale. È la conseguenza del ventennio berlusconiano, un tempo viziato da un machismo becero, da un’idea di uomo completamente distorta. Non a caso i ragazzi di diciotto anni assumono viagra: hanno fatto loro l’idea dell’uomo che deve dominare, quello che «non deve chiedere mai». Questi modelli che inseguiamo creano un’ansia generalizzata e ci hanno omologati, ma questa trappola ce la siamo costruita da soli.
Queste dinamiche sociali nel film vengono raccontate attraverso le famiglie.
La famiglia in quanto fonte di complessi, frustrazioni e rivendicazioni è un classico della narrazione non solo italiana, ma anche americana. Nel luogo in cui dovremmo imparare ad essere adulti vengono messi in pratica meccanismi psicologici per cui il malessere viene sotterrato. La mancanza di dialogo sulle fragilità di ognuno fa sì che vivere in famiglia sia un’arte performativa, una competizione, con sé stessi e coi propri genitori.
Questa competizione può portare ad allontanarsi da tutto ciò che ci viene insegnato a casa o, al contrario, all’accettazione passiva anche di ciò che non ci appartiene. Nelle famiglie spesso c’è una mancanza di dialogo che ha delle conseguenze atroci: i bambini vengono educati dalla televisione. I genitori stessi non permettono più ai loro figli di annoiarsi e i ragazzini sentono la necessità di occupare ogni momento, ma la noia è fondamentale perché si sviluppi l’immaginazione. La famiglia è una trappola, ma nessuno lo direbbe mai. Io penso che la famiglia sia un dramma.
A cosa state lavorando ora?
A una serie televisiva che verrà prodotta da Sky Studios: si tratta della storia di un uomo solo.
Come mai la scelta di una serie?
Io non concepisco film che vadano oltre i 100 minuti, anzi per me 90 minuti è la misura perfetta, come il tempo di una partita di calcio. Abbiamo una storia lunga da raccontare adesso e la serie è la forma migliore. Siamo a metà, sappiamo dove vogliamo arrivare, ma non ancora esattamente come. Intanto scrivere è già una libertà.