Ormai sono anni che le rassegne d’arte hanno abbandonato la fedeltà assoluta al genere che ha caratterizzato gli inizi. L’offerta, pur limitata che sia, deve poter allargare gli orizzonti, anche a rischio di sconfinare per scoprire nuove tendenze, nuovi paradigmi.
Presupposti da tener presente al momento di archiviare la 29esima edizione del Festival Internazionale del Teatro (FIT) considerando il periodo che stiamo attraversando, le difficoltà cui siamo confrontati e, soprattutto, i rapporti col pubblico, apparentemente ormai compromessi.
È l’aria che è filtrata attraverso le mascherine obbligatorie durante il FIT che quest’anno ha dato spazio a nuove liturgie e a spettacoli che con il teatro, inteso in senso stretto, hanno avuto poco a che vedere, anche se molto da raccontare.
Come dal profilo tecnologico, alla ricerca di una drammaturgia che racconti attraverso l’elaborazione di immagini filmate e suoni campionati: la via della creatività della scena contemporanea. Questa volta in senso lato.
Ci sembra chiaro che ormai sotto la voce drammaturgia sia lecito attendersi di tutto, non solo quanto pertiene alla scena. Il che non deve però essere frainteso come un alibi, un passepartout per legittimare qualunque cosa. Talvolta ne abbiamo avuto la sensazione. Come con Pleasant Island dove, fatto salva l’originalità dello sviluppo, i belgi Silke Huysman e Hannes Dereere hanno ripercorso il loro reportage giornalistico registrando interviste sullo sfruttamento di una piccola isola del Pacifico. Di ottima fattura realizzativa, ma fuori contesto.
Ciò nonostante la scelta editoriale di questa edizione del FIT, Le lacrime del mondo, è stata in gran parte rispettata nella sua centralità, in un clima di essere e non essere, di metafora sulla morte, di visibile e invisibile, di memoria, di cancellazione, di oblio. Temi che hanno percorso le proposte che ci siamo lasciati alle spalle e sulle quali, anche quest’anno, dovrebbero nascere nuove pagine per gli Sguardi sul contemporaneo dei Quaderni del FIT. Serate a sala piena anche per gli spettacoli che hanno siglato la seconda e ultima settimana e ottima frequentazione anche per eventi che hanno accompagnato il Festival.
Come Dance the Distance, della compagnia Aiep di Claudio Prati e Ariella Vidach, un progetto sui nuovi dispositivi per la creazione coreografica in uno spazio di realtà virtuale aumentata con tanto di avatar che accompagna lo spettatore in un’originale formula di fruizione.
O come Binaural views of Switzerland l’installazione audiovisiva di Alan Alpenfelt che ripercorre il viaggio compiuto tra il 1863 e il 1865 del fotografo William England nel nostro Paese, dove le sue immagini si sovrappongono a istantanee del presente nel punto esatto d’osservazione creando un tessuto di cambiamenti climatici, ambientali, turistici, industriali lungo un’avvincente serie di contasti.
Alla leggerezza compositiva ci hanno pensato i romandi François Gremaud e Victor Lenoble con Partition(s), una sorta di divertente conferenza o corrispondenza-chat fra due artisti alla ricerca di un modello di partitura musicale oltre il modello tradizionale. Anche in questo caso a far da padroni i due protagonisti seduti dietro un tavolo e i loro laptop a simulare il dialogo, letto e proiettato su uno schermo.
Dulcis in fundo va notata la notevole originalità e spettacolarità di due proposte, un’ideale e attesa quadratura del cerchio fra tecnologia e dimensione teatrale. Dapprima con Be Arielle F. del ideografico e artista visivo ginevrino Simon Senn, che ha sorpreso per la sua capacità di rimanere in bilico fra realtà e finzione con una performance che ha ricevuto numerosi premi e che ricostruisce l’avventura digitale nel ricreare un avatar modellato sul corpo nudo di una donna reale, Adele appunto. Un’avventura che permette di abitarne virtualmente le fattezze, ma anche di trasferirle su altri. L’artista racconta, simula, riflette e agisce in diretta sulla trasformazione fino a un collegamento video reale con la sua modella.
E infine con The History of Korean Western Theater, applaudita performance del sud coreano Jaha Koo. Come nel caso di Cuckoo, in scena lo scorso anno al FIT, ritroviamo la sua rabbia politica e… un cuociriso come alter ego con cui Jaha reagisce al processo di americanizzazione che ha fagocitato la tradizione teatrale coreana. Passato e presente rivendicano la dimensione intima e familiare anche grazie al maxi origami di una rana con cui valorizzare l’eredità e la speranza. Un ulteriore esempio di come declinare l’inventiva tecnologica con l’urgenza teatrale.