Pubblicati da Aragno gli appunti del 1942-43
Non si sa bene da che parte prenderlo questo «taccuino segreto» di Cesare Pavese, che segreto non è più dall’estate del 1990 quando Lorenzo Mondo, dopo un’attesa durata quarant’anni, si decise a rendere pubbliche quelle poche pagine molto scottanti sul quotidiano torinese «La Stampa». L’eco mediatica che ne era seguita, con gli interventi più o meno scioccati di amici e colleghi (Fernanda Pivano, Natalia Ginzburg, Giulio Einaudi, Carlo Muscetta e molti altri), è ora ricostruita in un ricco volume curato da Francesca Belviso per l’editore Aragno, con contributi di Angelo d’Orsi e dello stesso Mondo, oltre naturalmente al testo integrale del taccuino (brevissimo) e a un piccolo apparato iconografico.
Cesare Pavese è una delle personalità letterarie più misteriose e indecifrabili del Novecento italiano: poeta in età giovanile, poi soprattutto narratore e traduttore, vero motore della casa editrice Einaudi dei tempi d’oro (1930-50), per ragioni politiche e sentimentali è sempre stato al centro del dibattito, in vita e tanto più dopo la sua tragica e volontaria scomparsa, sigillata da un messaggio che invece di sedare gli animi non aveva fatto altro che esacerbarli: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».
E di pettegolezzi invece negli ultimi decenni se ne sono fatti tanti, davvero troppi, al punto che persino questa operazione, molto documentata e filologicamente ineccepibile, avrebbe potuto rischiare di rientrare in quell’alveo, come l’ultimo tassello di uno scandaglio psicologico un po’ cinico, volto soltanto a suscitare scandalo. Per fortuna non è questo il caso.
Sin dalla prima apparizione del Taccuino nell’estate del 1990 Natalia Ginzburg, con la lucidità di pensiero che le era propria, aveva distinto nettamente i termini della questione: un vero amico quelle carte non le avrebbe mai pubblicate (lei quantomeno si sarebbe rifiutata), ma uno studioso serio sarebbe stato autorizzato a farlo, per desiderio di conoscenza e di completezza. L’importante era divulgarle con il garbo e il rispetto richiesti da quella materia incandescente: così ha fatto Lorenzo Mondo nel 1990 – nonostante l’esito un po’ infelice di quella polemica estiva − e così fa oggi Francesca Belviso, inserendo quel piccolo e raffazzonato diario del 1942-43 all’interno di una costellazione di letture europee (soprattutto Nietzsche) che ha il merito di allargare il quadro a un’intera biografia intellettuale, senza soffermarsi esclusivamente sulla materia politica.
Pietra dello scandalo, allora come oggi, sono infatti le posizioni di Pavese nei confronti del fascismo e della sua cosiddetta «cultura», cui nel Taccuino si tende a guardare a tratti con benevolenza: «alla virtù latina o nulla manca o sol la disciplina… Il fascismo è questa disciplina. Gli italiani mugugnano, ma insomma gli fa bene» (25 ottobre 1942); «L’altra fu guerra dei popoli. Questa è la guerra delle personalità. Gli italiani di Mussolini, i tedeschi di Hitler, gli spagnoli di Franco. Si torna alla concezione epica». Come spiegare affermazioni così scandalose, sebbene siano state scritte per uso privato, da parte di un intellettuale che pure aveva subito il confino per il suo antifascismo giovanile, e che in seguito era stato osannato anche per aver fatto parte di un gruppo che incarnava l’essenza stessa dell’opposizione a Hitler e Mussolini?
Nell’introduzione al volume, significativamente intitolata Ritratto in chiaroscuro, Francesca Belviso sviscera la questione da ogni possibile punto di vista (fin troppo), mettendo innanzitutto in rapporto le pagine del Taccuino con quelle coeve del diario maggiore, reso noto poco dopo la sua morte. Se Il mestiere di vivere è infatti una sorta di diario da tavolino, scritto con calma e continuità tra il 1935 e il 1950 con l’intenzione consapevole di produrre un’autobiografia intellettuale, il Taccuino del 1942-43 non è altro che un quadernetto da tasca per appunti da prendere al volo, senza grandi filtri né controllo.
Le tematiche politiche, quasi del tutto assenti nel Mestiere di vivere, risaltano per contrasto nel piccolo Taccuino, come se l’autore avesse voluto confinarle alla fugacità di un momento non degno di ulteriori sviluppi, come in un discorso racchiuso tra sé e sé, e neanche particolarmente brillante: «Il fascismo non solo ha dato l’unità all’Italia, ma ora tende a dargliela repubblicana – contro l’opinione che in Italia la repubblica siano le repubbliche. Naturale che incontri resistenza e sembri lacerarne la coscienza. Ma è il male della crescita». Il freddo esercizio dell’intelligenza storica, sulla scia della lezione di Vico, ha quale esito considerazioni generali che lette oggi risaltano per il loro cinismo, e che certo soltanto Pavese avrebbe potuto scrivere in quel modo, mentre i fatti ancora avvenivano.
Il cuore della questione, alla fin fine, è proprio questo: l’estraneità e diversità di Pavese rispetto al gruppo al quale è stato spesso forzatamente assimilato, soltanto per biasimarne poi lo scarso interesse per la politica e l’umoralità della sua posizione morale. Spirito libero e fieramente indipendente, sopravvissuto al fascismo e alla guerra ma non a sé stesso, nel confronto con un campione di purezza e abnegazione come Leone Ginzburg (per citare un unico caso, e il più significativo) è inevitabile che il tormentatissimo Pavese finisca sempre per uscire perdente. Ma quel confronto, a ottant’anni dai fatti, ha ancora ragione d’essere?
Il libro di Francesca Belviso sembra dire implicitamente di no: a Cesare va dato solo ed esclusivamente quanto era di Cesare, senza eccessive forzature che hanno a che fare con il mito di Pavese così come lo abbiamo costruito nella seconda metà del Novecento, più che con la sua reale persona, da cui dipendono in ultima analisi le responsabilità sulla sua opera intellettuale e letteraria. Ne avevamo fatto una statua, fragilissima, e ora ci accaniamo contro di essa armati di un minuscolo bloc notes.