Urbex, terra dei pellegrini di rovine

by Claudia

Reportage - Una traversata di Milano tra cascine e fabbriche abbandonate

Altolà, di qui non si passa! Fanno la guardia reticolati terrificanti, cartelli dissuasivi, cumuli di rifiuti, piante vigorose e incontrollate, edifici abbandonati. Chi supera a fatica questo confine si trova, letteralmente, nell’incognito, tra luoghi dimenticati, alieni immersi nel regolare tessuto della città: ex cantieri, muri diroccati, lembi di verde che qualcuno ha recintato (spesso abusivamente), relitti di aree industriali, paesaggi ferroviari. La metropoli è un mostro che divora sé stesso e lascia dentro di sé, semidigerite, alcune parti del suo corpo. Un tempo furono operosi stabilimenti, dense comunità in cui generazioni di persone vivevano, lavoravano, si amavano e crescevano figli. Oggi sono cumuli di pietre e mattoni e rottami. 
Nelle avventure di Urban exploration (Urbex) si sta sospesi tra l’orrido e il sublime. S’incontrano insediamenti di disperati nascosti tra le rovine, depositi di veicoli nascosti, sventramenti che celano macchinari. Oppure a volte, nel mezzo del degrado, si fanno scoperte sorprendenti: il mobilio di una stanza misteriosa, giocattoli impolverati lasciati da chissà chi, teneri rifugi per gatti abbandonati, talvolta anche isole di preziosa biodiversità cittadina, con tane di lepri, acque limpide, minuscoli orti coi frutti di fine estate.
Pare che il primo esploratore dell’abbandono sia stato un certo Philippe Aspairt che nel 1793 si avventurò nelle tetre catacombe di Parigi e non tornò più. Ma la sua eredità è stata raccolta da un numero sorprendente di appassionati, organizzati in gruppi dedicati (come Urbex Squad e Ascosi Lasciti); attraverso la rete si scambiano informazioni e condividono esperienze. 
Come ci si prepara a queste immersioni nel vuoto? Un piccolo sopralluogo preventivo e poi dentro, con abiti vecchi, pile frontali, scarpe da montagna e guanti, come sub in immersione nell’ignoto, senza nulla prelevare se non foto. 
L’esplorazione urbana è praticabile quasi in ogni grande città e quindi anche a Milano, volendo fare l’esempio più facile e a portata di mano. Tempo fa, con pochi compagni, ho compiuto un’inedita traversata della metropoli toccando solo alcuni tra gli innumerevoli siti nascosti nelle pieghe del tessuto urbano. Luoghi che, è importante sottolineare, non vanno esplorati senza opportuna preparazione e il sostegno di persone esperte.
Alla periferia nord-ovest, alle spalle del Campus del Politecnico della Bovisa, quartiere in vorticosa trasformazione, si apre La Goccia, area ex industriale: quarantadue ettari di superficie, una costellazione di edifici dismessi dal 1994, dominati dai giganteschi gasometri costruiti nel 1908 da Union de gaz. Nel frattempo, è cresciuto un parco spontaneo con duemila alberi: frassini, aceri e platani ormai monumentali. Quest’oasi è oggi il più importante caso di rewild in Italia, per questo un apposito comitato vorrebbe tutelarla opponendosi al piano di riqualificazione del Comune e al progetto di nuove costruzioni, che comporterebbero il taglio di parte degli alberi d’alto fusto. 
Mentre ci addentriamo nel quartiere cessa ogni suono, solo le foglie frusciano sotto le scarpe. La torre con il logo dell’Azienda energetica municipale domina il profilo nord cittadino e chi riesce ad arrampicarsi in alto, a proprio rischio, sfidando scale pericolanti, si affaccia su una città che emerge oltre il mare verde come una conurbazione del sud-est asiatico. Nel denso sottobosco spuntano cartelli stradali, cabine telefoniche e le pompe di una stazione di rifornimento. Sorpresa dopo sorpresa, ecco delle opere d’arte: sono una ventina, in legno, pietra e plastica, e formano un atelier misterioso, il Bosco di sculture, iniziativa controcorrente riservata ai pochi che vi arrivano sfidando i divieti. 
La traversata prosegue. Il pellegrino delle rovine avanza verso il centro città, gettando l’occhio nella distesa deserta dello Scalo Farini, lo scalo merci più grande della metropoli e uno dei maggiori in Italia: oltre seicentomila metri quadrati alle spalle dei grattacieli di Porta Nuova. Anche qui è stato proposto un importante piano di riqualificazione, con un bosco artificiale di nuovo impianto e una vasca di depurazione. Nell’attesa di questo brillante futuro però la zona è di difficile accesso, con edifici fatiscenti tra i fasci di binari abbandonati. Entrarci è un grosso rischio, perché lo Scalo è una città nella città, riservata a senzatetto, clochard e personaggi equivoci. 
Scendiamo verso sud, alle spalle della Darsena, in un’area ad alta densità abitativa dove si stanno recuperando parecchi edifici in abbandono, come quello del nuovo Ostello lungo il Naviglio grande. Ma uno tiene duro e si oppone tenacemente alla modernità: è la Cascina Argelati, da anni solidamente recintata per impedire l’ingresso. È la cascina più vicina al Duomo e conserva anacronisticamente le stimmate del mondo campagnolo. A un passo dalla movida milanese scalinate fatiscenti portano in un labirinto di cubicoli umidi rivestiti di graffiti; intorno carcasse di auto e motorini.
Seguendo il filo blu del Naviglio grande ecco San Cristoforo, quartiere travolto dai lavori del capolinea della Linea metropolitana 4. Poco oltre, piloni e trabeazioni attraversano il cielo, disegnando un’onirica struttura a gabbione. È un ex terminal merci chiuso tra il cantiere, il Naviglio e la viabilità stradale, frequentato da writer, senzatetto e satanisti, che riservano i piani più alti alle loro cupe rappresentazioni rituali. 
Una camminata verso est conduce poi lungo la linea del filobus n.90, in via Castelbarco. Qui sotto il ponte stradale della Circonvallazione emerge fresca e riposante un’antica via d’acqua, la Vettabbia, una sorta di relitto idrico della Milano romana. Un tempo forse era addirittura navigabile, oggi è una roggia che scorre pudicamente dietro condomini e piccole officine, sfiorando cortili privati e orti abusivi. La seguiamo scoprendo retrovie urbane, mentre il movimento e il traffico del centro lentamente svaniscono. Camminare lungo la Vettabbia non è facile – tra fili spinati, spine vere, muri cadenti e chiusure private – ma i più tenaci la ritrovano affiorare qua e là fino ad arrivare al Parco intitolato al suo nome, già ai margini sud-est di Milano.
Qui abbandoniamo la via d’acqua al suo destino, diretta verso uno dei campi nomadi più grandi e affollati. Noi usciamo dalla città silenziosamente seguendo un binario abbandonato da Rogoredo – altra zona «calda» tra boschetti frequentati da pusher ed effervescenti trasformazioni edilizie – verso l’Abbazia di Chiaravalle. I binari, non più percorsi dai treni, lentamente svaniscono sotto il nuovo bosco e le piante di zucchine, «evase» da qualche orto nascosto nelle vicinanze.