Le migliori espressioni umane

Abbiamo incontrato Melania Mazzucco, scrittrice italiana, tradotta in tutto il mondo, autrice di numerosi romanzi tra i quali Lei così amata (Einaudi 2000) dedicato alla storia dell’artista svizzera Annemarie Schwarzenbach e L’architettrice (Einaudi 2019), sulla vita di Plautilla Brecci, architetta romana del ’600.

In L’architettrice racconta la storia dimenticata di Plautilla Brecci, come Anna Banti fece con la pittrice Artemisia Gentileschi. Secondo lei queste donne erano solo ribelli o andavano più veloce del loro tempo?
Artemisia di Anna Banti rimane un romanzo capitale della letteratura italiana, un esempio perfetto di equilibrio fra ricerca, racconto, invenzione e stile, e mi stupisco (e mi indigno anche un po’) che non figuri nelle storie letterarie con il rilievo che merita. Ma non so quanto consapevolmente Artemisia o Plautilla fossero ribelli. Per lunga parte della loro vita accettarono le scelte dei loro padri, anche se erano sbagliate o nocive. E li rispettarono e omaggiarono fino alla fine.

Di certo con la maturità (ancora giovane ma già moglie e madre Artemisia, più adulta Plautilla) rifiutarono entrambe il destino assegnato, e non si accontentarono dello spazio angusto loro riservato nel mondo dell’arte. Forzarono consapevolmente i margini, e questo le proiettò oltre le convenzioni, le abitudini, i giudizi e il loro tempo. Le escluse, anche – basti pensare alla «cattiva fama» che avviluppò Artemisia fino alla fine, o al silenzio che inghiottì Plautilla. Furono delle pioniere. La loro importanza sta proprio in questo: fecero qualcosa che non era mai stato fatto prima. Qualcuno deve assumersi il compito di agire per primo, di incamminarsi su una strada ignota, per cambiare le regole per tutti. E loro lo hanno fatto, subendone le conseguenze.

Nelle prime pagine del suo ultimo romanzo, racconta del pesce dux che aiuta i grandi cetacei a cibarsi e li guida «come un timone». Cosa la guida nella scelta delle storie che racconta?
Non ho ancora capito se io sono la balena o il pesciolino, se conduco io la storia o ne vengo condotta… Alle storie mi attira una scintilla, che infiamma una brace sopita. Può essere un’intuizione, un’immagine, una parola, un quadro, o un semplice nome nel libro di un altro. Sul momento non capisco mai la potenza del fuoco che quella scintilla può sprigionare, né la capacità di incendiare i miei ricordi, i miei desideri, i miei interessi. Solo il tempo che passa mi rivela quanto lontano possa guidarmi.

Nel suo romanzo Io sono con te. Storia di Brigitte (Einaudi 2016) lei dona alle lettrici e ai lettori la testimonianza di una donna scappata dal Congo e approdata a Roma. Anche Brigitte si è ribellata alle ingiustizie subite nel suo paese d’origine e anche lei ne ha pagato severamente il prezzo. Qual è la differenza tra ribellione e eroismo?
Credo che l’eroismo sia qualcosa di molto semplice, e perciò così raro: nel momento in cui sei chiamato a una scelta, fare ciò che è giusto. Poiché il bene e il male esistono, e tutti noi lo sappiamo. Senza nemmeno porsi la domanda se agire diversamente, d’istinto, con naturalezza e incuranti delle conseguenze. Un ribelle può essere eroico, un eroe può non essere un ribelle – anzi, spesso è qualcuno che si limita a fare il proprio dovere. E a volte, in molte circostanze della storia, è esattamente ciò che è accaduto.

In L’architettrice, per raccontare quanto fosse effimera la vita nel ’600, scrive: «chiunque poteva sparire dall’oggi al domani, morire per una febbre qualsiasi o la puntura di un insetto, affogare nel Tevere, finire spiaccicato sotto un carro, fracassato dal calcio di un cavallo…». Dal suo punto di vista, la fase storica che stiamo vivendo ci cambierà? E come?
Non so se la lezione del Covid ci cambierà. I comportamenti della popolazione mondiale dopo il lockdown sembrano testimoniare che non si sia compreso che la vita umana – e anche la vita del nostro pianeta – è precaria e preziosa, perché non si può comprare, né scambiare, né ritrovare dopo che l’hai gettata via o distrutta. Anzi il vitalismo post-catastrofe è sembrato quasi una sfida al virus e alla morte. Ma forse la ricaduta di questo autunno potrà illuminare di altra luce l’evento e far ripensare davvero al nostro modo di stare al mondo.

Credo che comunque ciascuno di noi abbia sperimentato la precarietà e anche l’insensatezza di abitudini e comportamenti sui quali erano basate le nostre esistenze, e abbia ridimensionato prospettive, spese, progetti, e riscoperto il valore del tempo, del corpo e delle relazioni. Questo trauma resterà, anche se non è detto che ci renderà migliori. Al contrario, di solito dopo un trauma insorge il «disturbo» – la rimozione, l’evitamento, la negazione, l’incubo ricorrente. Chissà per quanti anni sogneremo la tosse, le mascherine, l’asfissia, la paura degli altri. E quanto tempo ci vorrà perché torniamo a fidarci di un abbraccio o una stretta di mano tra sconosciuti.

Non vedo cambiamenti positivi dopo mesi di sospetto reciproco, delazione o spionaggio involontario, isolamento e perdita di socialità. L’incontro, la mescolanza, lo svago collettivo, il piacere del contatto e della condivisione di un’esperienza erano le migliori espressioni dell’essere umani, una conquista di libertà e uguaglianza – e c’è da rimpiangerle, e da ripristinarle.

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