Garìfunas, il cuore nero del Centroamerica

Vuelve Mujer (traducibile in Ritorna Donna), Monte de Oro, sono i nomi da favola di villaggi di capanne sbilenche color pastello sbiadite dal sole e dalla pioggia, sgranati tra labirinti di acqua e mangrovie di un Caraibi ispido e selvatico. Piccole Macondo di sogni perduti lungo le coste di Belize, Guatemala e Honduras dove vive un piccolo popolo, i garìfunas con il loro creolo nato per non farsi capire dagli «altri». 
Chi siano nessuno lo sa con certezza, molti storici parlano di un incrocio tra indios Caribe e schiavi africani sopravvissuti nel 1635 a un naufragio davanti all’isola di St. Vincent e deportati nel 1798 dagli inglesi sull’isola di Roatàn al largo dell’Honduras. 
Da qui si dispersero lungo le coste centroamericane fondando comunità come Livingston in Guatemala, un grappolo di case nascosto alla fine di un fiume dal nome sognante, il rio Dulce. 
Un villaggio di pescatori uguale a tanti altri con una strada che collega il molo al cimitero, l’alfa e l’omega del paese, e in mezzo l’ordinaria follia quotidiana. Per capire bisogna lasciare scorrere il tempo nel silenzio letargico di un’aria rovente che trasforma la realtà in una visione tremolante, spezzata solo dalla voce arrocchita di Celia Cruz che esplode da una radio dirigendosi con decisione verso il panteòn, il cimitero dove un groviglio di croci e di tombe lotta quotidianamente contro le matasse di radici di una grande ceiba, l’albero sacro dei Maya. Se muoiono quelle radici, muore Livingston assicurano in paese, ma per il momento si esorcizza il futuro brindando ai defunti, «que Dios los tenga en gloria!».
A dare una botta di adrenalina ci pensa il 26 novembre, quando tutti si riversano sulla spiaggia sventolando foglie di palma per festeggiare precarie zattere di bamboo e barche stracariche che rievocano lo sbarco dei fondatori di Livingston in un lontano 1802. Ballano fino allo sfinimento i garìfunas per rivendicare un’identità a lungo negata. Balla la ragazza con una bambola di stoffa che è in realtà una puchinga simbolo dell’obeah, la tradizionale pratica magica rituale, ballano i fedeli della chiesa Evangelica del Nazareno da cui esce una tempesta sonora che fa tremare le sottili pareti delle case tamales ricoperte di foglie che avvolgono, come gli involtini da cui prendono il nome, gli esseri umani che ci vivono. 
È l’outing liberatorio di un mondo così impregnato di radici africane da indurre nel 2001 l’Unesco a dichiarare la cultura Garìfuna, Garinagu nella loro lingua, «Patrimonio orale e immateriale dell’Umanità» per la sua intrigante fusione afrocaribeña di musica, danza e spiritualità. Non tutti sono però d’accordo a Livingston. «È una balla colossale» sbotta Felipe quando incautamente glielo chiedo al Bahia Azul, versione locale del Buenavista social club con un più sostenuto tasso alcolico e musicale. «Un nero di Haiti o del Brasile non sa se i suoi antenati erano swahili o bantù, io invece so benissimo chi sono e da dove vengo. Noi caribeños delle isole eravamo qui prima di Colombo, è una cultura che ci impongono da fuori, persino i garìfunas emigrati a New York o a Chicago che tornano solo a farsi canne o per lasciare incinte le ragazze di qui». 
È d’accordo anche Greg, sacerdote della religione sincretica garìfuna. «Ormai neanche gli anziani conoscono i riti e i loro segreti, prendi anche il nome dei nostri templi, Dabuyabà che significa “bevine ancora un poco”, non vuole dire che devi ubriacarti fradicio, bisogna rispettare Obatalà, Changò e Ochum». Loro, gli dei ancestrali, hanno deciso che qui si arriva solo in barca perché una strada porterebbe solo guai, «Con Livingston non si scherza, è un luogo sacro. Hanno provato tre volte a costruire un ponte e tre volte è crollato». Così a La Buga, come la chiamano i garìfunas, si arriva solo in lancha lungo il Rio Dulce o da Puerto Barrios, un porto bananiero che sembra una pubblicità del caffè, alla mercé di qualche lanchero che si infila tra le onde di un mar picante come un peperoncino. 
Livingston bisogna accettarla senza porsi troppe domande, compreso un suo inquietante mondo sotterraneo che può materializzarsi nella luce incerta dell’alba quando, al suono aspro di un tambor garaòn, una processione di uomini e donne svanisce rapidamente tra gli alberi ondeggiando in una sorta di trance, è un Dugù, un rito inquietante e segreto per calmare qualche defunto un po’ troppo agitato.
Livingston è un’atmosfera, come e più di altri villaggi garìfunas, ma anche un reality sopra le righe dove il galateo locale prescrive di non rifiutare mai una cerveza bien fria a chi ti ha scelto come sponsor. Soprattutto se è Luis con le sue treccione rasta e il dente d’oro che brilla al sole, l’unico modo per sfuggirgli è sperare che abbia rimorchiato qualche americana di passaggio altrimenti prima o poi risuona il suo suadente «Ehi man, mi paghi un octavo?» che nello slang locale si traduce in un bicchierino di ron Venado
Da queste parti bisogna inventarsi qualcosa per sfangare la giornata, anche in Belize dove i garìfunas avevano trovato un nascondiglio perfetto in villaggi fuori dal mondo come Hopkins, dove ogni sera i pescatori scaricano ceste di Red Snappers sempre più vuote, travolte dalla globalizzazione della pesca, mentre tra i tunnel di mangrovie del vicino New River il reggae sincopato del punta rock esce dalle finestre come il battito di un cuore impazzito insieme a qualche voluta di Belize breeze, la marijuana. 
«Vivi e lascia vivere» sentenzia con il suo sorrisone accecante un manager-cameriere-tuttofare di San Pedro, un atollo corallino dove i garìfunas snobbano con elegante distacco sub e turisti perché su una sola cosa hanno sempre avuto le idee chiare, la difesa della propria libertà. Sull’isola di Roatàn, nel vicino Honduras, lance cariche di anziane signore e scolaretti urlanti sfrecciano tra due file di case colorate che incorniciano il canale del porto peschereccio di Oak Ridge. 
Il nuovo che avanza si materializza invece come un irresistibile magnete per teenagers dalle pareti tappezzate di foto di attori e rapper di un parrucchiere del villaggio di Corozàl sulla vicina terraferma. Eppure anche qui la precaria pista che attraversa una lingua di terra tra lagune e grandi dune di sabbia bianca battute dall’onda lunga del Caribe finisce davanti a un grumo di capanne dal nome improbabile, Miami, dove i garìfunas vivono come due secoli fa. Niente luce, niente acqua dolce, solo cocchi allampanati che si piegano al vento e per i giorni di festa non manca mai il Sietetumbas, il «sette tombe», infernale miscela di radici fermentate che garantisce sbronze per sette giorni e sette notti, eliminando qualsiasi problema. 

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