Non è ira divina

La più antica descrizione di una epidemia è costituita dal finale del poema De rerum natura di Lucrezio: il VI e ultimo libro si conclude infatti con un’ampia narrazione, condotta sulla falsariga del testo tucidideo, della peste di Atene del 430 a.C. (VI, 1138-1286).

Dopo aver spiegato – coerentemente con la dottrina epicurea – che le epidemie non sono manifestazioni dell’ira divina nei confronti degli uomini, bensì sono causate da un inquinamento prodotto da atomi nocivi (De rerum natura, VI, 1090-1137), Lucrezio passa appunto a descrivere la peste di Atene, seguendo fedelmente e quasi traducendo, sia pure nella trasfigurazione poetica, la narrazione dello storico ateniese.

Vi si ritrovano, e sostanzialmente nello stesso ordine sequenziale, tutti i dettagli del racconto tucidideo:
– l’origine al di fuori del mondo greco (1141);
– il quadro sintomatologico, che costituisce la sezione più ampia (1145-1214);
– l’incapacità della scienza medica di escogitare una terapia efficace e universalmente valida (1179; 1226-1229). Si veda a questo proposito la potente personificazione della medicina balbettante, sottolineata dalla duplice allitterazione a distanza: Mussabat tacito medicina timore, «la medicina balbettava, colta da inconfessato timore» (1179);
– la prostrazione psichica di chi si scopriva positivo al contagio: «ciò che accadeva, fra tante sciagure, di più pietoso e penoso era il fatto che chi si vedeva colto dal contagio, come se fosse stato condannato a morte, perduto il coraggio giaceva col cuore afflitto, e aspettando la morte esalava l’anima sul posto». (Lucrezio, De rerum natura, VI, 1230-1234);
– l’inarrestabile propagazione del contagio (1235-1251);
– il sovraffollamento della città (1252-1261);
– i mucchi di cadaveri nelle case, nelle strade, nei templi (1262-1275; cfr. anche 1215 ss.);
– l’impossibilità di celebrare regolari esequie (1276-1286).

In età augustea, Livio descrive l’epidemia che colpì Siracusa nel 212 a.C., durante l’assedio della città nel pieno infuriare della seconda guerra punica. Anch’egli insiste su alcuni particolari «topici» come i mucchi di cadaveri insepolti e l’incrudelimento degli animi. Aggiunge tuttavia un particolare inedito: la ricerca di una via di morte più rapida in battaglia. Ecco il testo della narrazione liviana nella classica traduzione di Guido Vitali:

«Sopravvenne allora su tutti un malanno, a cagione d’una pestilenza che distolse subito gli animi degli uni e degli altri da propositi bellicosi. Per la stagione autunnale, infatti, e per i luoghi di lor natura malsani, l’intollerabile violenza del calore colpì le membra dei soldati, molto più tuttavia fuori di città che dentro. Dapprima si ammalavano e morivano per effetto della stagione e della malaria; poi le stesse cure che si prestavano agl’infermi e il contatto con costoro diffusero il morbo, sì che, o morivano prima senza essere assistiti oppure comunicavano il contagio a quelli che li assistevano e li curavano; onde i funerali erano quotidiani, e l’aspetto della morte era sempre sotto gli occhi, e giorno e notte risuonavano dappertutto lamenti.

Da ultimo, l’abitudine al male aveva siffattamente indurito gli animi che non solo non accompagnavano più i morti con pianti e con le dovute lamentazioni, ma neppure li portavano a seppellire, onde i cadaveri giacevano a mucchi sotto gli occhi di quelli che aspettavano la stessa morte, e i morti infettavano gl’infermi, e gl’infermi i sani, con la paura, con gli umori corrotti, con l’odore pestifero delle membra. E, per morire piuttosto di ferro, alcuni assalivano da soli le guardie nemiche». (Livio, Ab urbe condita, XXV, 26,7-12, tr. di Guido Vitali)

L’episodio narrato da Livio è ripreso, e poeticamente rielaborato con influssi virgiliani (peste degli animali del Norico nelle Georgiche, III, 470-556), da Silio Italico nel suo poema sulle guerre puniche (Punica, XIV, 580-617). In particolare, egli riprende l’antichissimo motivo dell’interpretazione della peste come punizione divina.

Quest’ultimo ricorre anche nell’ampia descrizione ovidiana della pestilenza mitologica che avrebbe colpito l’isola di Egina, scatenata dall’ira di Giunone, invidiosa degli amori di Giove con la ninfa Egina, da cui era nato Eaco, che sarà poi l’unico sopravvissuto e diverrà re dell’isola (Ovidio, Metamorfosi, VII, 523-613).

La narrazione, modellata sulle descrizioni di Lucrezio (peste di Atene) e di Virgilio (peste degli animali nel Norico), comprende molti particolari già rilevati:
– la descrizione dei sintomi (554-560);
– l’inutilità dei rimedi (561-567);
– i malati cercano invano di placare l’arsura con l’acqua (568-581);
– mucchi di cadaveri ammassati all’aperto (582-586);
– a nulla valgono le pratiche religiose (587-603);
– esequie sommarie (606-613); si vedano in particolare i vv. 606-607: «I cadaveri degli estinti non sono accompagnati coi consueti riti funebri; infatti le porte della città non contenevano più i funerali».

Come abbiamo già osservato a proposito di Sofocle e di Tucidide, si tratta di un dettaglio di sconvolgente attualità.

A questi particolari Ovidio aggiunge quello di chi si uccideva per affrettare la morte (604-605): una scelta analoga a quella dei combattenti a Siracusa secondo Livio.

Alcuni dei dettagli sopra elencati sono a loro volta ripresi da Seneca nella tragedia Oedipus (vv. 53-201), che rielabora la stessa materia mitica dell’Edipo re di Sofocle. Il filosofo stoico pone sullo stesso piano l’inanità della religione e quella della medicina (68-69) e dà grande rilievo alla sommarietà dei riti funebri, causata dal gran numero dei decessi: mancano terra per i tumuli e legna per i roghi (61-67), mentre le sette porte di Tebe non bastano alla folla dei congiunti in cerca di sepolture (129-130).

Al termine di questa carrellata di testi greci e latini, due conclusioni si impongono: la prima, che la descrizione di un’epidemia, presente fin dagli albori della letteratura greca, si è venuta col tempo costituendo in una sorta di sottogenere, con alcuni elementi canonici e ricorrenti; la seconda, che al di là degli enormi sviluppi intervenuti, in particolare nel campo scientifico, nel corso di più di duemila anni, la lettura di quei testi antichi, confrontata con l’attuale pandemia che sta sconvolgendo il mondo, evidenzia tutta una serie di analogie negli effetti del morbo e nelle sue conseguenze sul piano comportamentale e dei rapporti sociali, facendoci così riflettere sulla sostanziale immutabilità della natura umana.

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