Classe 1988, è già stato Romeo, un punk arrabbiato, il cacciatore di nazisti Egon Leutenegger, un ragazzo disabile, un giovane allenatore di nuoto omosessuale. Dimitri Stapfer è la nuova stella nel firmamento attoriale elvetico, dove proprio in tempi recenti ha brillato nel piccolo gioiello della televisione svizzera Il prezzo della pace.
Ne Il prezzo della pace ha un ruolo duro, sofferto, poi guardando alla sua biografia si scopre un carattere che la porta, apparentemente, a non temere nulla. Dove finisce l’attore e dove inizia il Dimitri privato?
Cerco di mettere sempre il massimo dell’impegno in tutto ciò che faccio. Prima di affrontare un ruolo, dunque, mi informo sulla regia e sul personaggio. Se da una parte ho una certa rappresentazione di base del ruolo che devo interpretare, dall’altra ci deve essere un’apertura che contempli visioni nuove e inattese.
Come si è preparato per il ruolo di Egon ne Il prezzo della pace?
In questo caso c’era una back story molto importante, che mi portavo sempre appresso. Mi riferisco ai trascorsi di Egon al confine ticinese, che sono ciò che lo turba. Per il ruolo di Egon ho lavorato tanto con il cuore, perché trovo che egli abbia grandi sentimenti: da una parte cerca di difendersi, dall’altra cova una sorta violenza derivante dal periodo al confine. Io però non ho vissuto in prima persona quel periodo, per cui ho dovuto lavorare su più livelli: mi sono così guardato i documenti dell’epoca, gli atti del pubblico ministero, le trascrizioni delle intercettazioni telefoniche, entrando in contatto anche con il linguaggio.
Mi sono poi documentato in famiglia, un mio bisnonno che amava leggermi le fiabe quando ero piccolo, ad esempio, aveva prestato 1000 giorni di servizio, e un altro nonno stanziato a Basilea mi ha saputo raccontare molte cose riguardo al periodo storico. A quel punto finzione e realtà cominciano a mescolarsi, e come attore io ho bisogno di questa apertura, voglio che il testo mi passi attraverso, rivelandomi delle visioni.
Anche i costumi sono stati un fattore importante: i mantelli pesanti degli uomini, le scarpe delle donne sono indumenti che conferiscono un determinato passo, e di conseguenza una certa fisicità.
Il prezzo della pace è stato un progetto importante per lei?
È stata un’operazione importante, attraverso la quale si è cercato di raggiungere tutte e quattro le aree politiche, geografiche e linguistiche della Svizzera, perché in fondo questa storia appartiene a tutti, al nostro Paese. Il regista Michael Schaerer ha fatto un lavoro straordinario e la storia, grazie alla bravura di Petra Volpe, era quella giusta.
Finite le riprese è riuscito ad abbandonare con facilità il ruolo di Egon?
Quando mi porto appresso qualcosa, lo faccio in modo consapevole, ma sono anche convinto che ruoli come questo continuino a lavorare a livello inconscio, senza che io me ne renda conto. Cerco di non farmi mai distruggere da un ruolo, anche perché per me la recitazione è un lavoro bellissimo che mi appaga. Come attore in fondo si lavora sempre a qualcosa, si deve rimanere aperti e capire ciò che succede nella società circostante. Dopo una pausa di due settimane, ho cominciato le riprese di Beyto, per il quale la preparazione fisica è stata molto importante, infatti impersono un allenatore di nuoto.
Ci parli allora di Beyto (regia di Gitta Gsell), il suo nuovo film, presentato allo Zurich Film Festival, in cui si tematizza la relazione tra un giovane allenatore di nuoto e il figlio di immigrati turchi Beyto.
Beyto mi sta molto a cuore perché ci sono ancora troppi stereotipi verso gli omosessuali, anche se nel film per me al centro vi è soprattutto l’amore tra due esseri umani. In questa storia ci si innamora, ma l’unione è osteggiata dall’ambiente circostante, un po’ come accade in Romeo e Giulietta. Credo sia un film importante per il suo statement politico e sociale, poi, ovviamente c’è anche un gioco con i luoghi comuni e con i cliché, poiché non tutti i turchi sono così, come d’altra parte non tutti gli svizzeri sono aperti come appaiono nel film. L’aspetto più importante è che i protagonisti sono costretti a confrontarsi con la propria idea di verità, e ciò li porta a contemplare anche l’idea del compromesso.
Spero che anche gli spettatori riescano a vedere determinati parallelismi tra la propria storia e quella del film, e siano dunque portati a riflettere. Anche se da noi le vedute sono aperte, non dobbiamo mai abbassare la guardia. Basti pensare a un paese come la Polonia, dove un discorso di questo tipo sarebbe del tutto impensabile.
Com’è la situazione della parità dei diritti LGBT all’interno del mondo della recitazione?
Vi è una certa stigmatizzazione, nel senso che molti miei colleghi omosessuali possono dirsi contenti se hanno modo di recitare una parte che non sia quella dell’omosessuale. Io ho recitato in moltissimi ruoli, sia nei panni dell’eterosessuale sia in quelli dell’omosessuale, nessuno mi ha mai fatto domande sulla mia sessualità. Per gli omosessuali non è esattamente così. Le cose per fortuna stanno cambiando, e una maggiore consapevolezza riguardo ai possibili orientamenti sessuali ci permette di comprenderne tutte le sfaccettature. Dobbiamo fare attenzione però, sono infatti convinto che dando troppe etichette ai vari orientamenti si creano dei confini, e attraverso i confini c’è sempre un’esclusione. Aspetto dunque il momento in cui si potrà essere semplicemente un essere umano.
Qual è la sua relazione con il cinema svizzero? Negli ultimi anni sembrano succedere cose davvero molto interessanti, pensiamo a Non tutte le sciagure vengono dal cielo, L’ordine divino o Vite rubate…
Ci sono molti registi, volti e attori nuovi che portano nuove visioni, e questo mi rende felicissimo. Sono convinto che le cose miglioreranno ancora di più, e che anche i registi più rodati sapranno prendere spunto da questi slanci.
Quali sono i punti di riferimento? Lei si muove in fondo tra due mondi per alcuni versi vicini ma per altri a sé stanti come quello del cinema e quello del teatro…
Io sono cresciuto all’interno del teatro, dapprima al Circo Chnopf, poi facendo parte del Giovane Teatro di Soletta. A 16 anni ho recitato per la prima volta al Theater Neumarkt di Zurigo, perché per me è sempre stato chiaro che avrei fatto carriera teatrale. Nel 2013 ho poi fatto Left Foot Right Foot (regia Germinal Roaux, ndr) con cui l’anno dopo ho vinto il Schweizer Filmpreis per il miglior interprete non protagonista. È così che ho messo piede nel cinema.
E lei cosa preferisce? Cinema o teatro?
Le mie esperienze nel teatro rappresentano un tesoro inestimabile. Nel teatro per preparare una parte spesso hai solo otto settimane di tempo, e devono bastare per le prove, per la caratterizzazione del personaggio, per uno scambio con la regia e i colleghi, ma anche per sbagliare, fare errori e scoprire la direzione in cui si sta andando e ciò che si vuole fare. Ogni rappresentazione è l’occasione per instaurare una relazione con il pubblico.
Se si è fortunati, si crea un momento magico in cui la fantasia dell’attore combacia perfettamente con quella dello spettatore, e insieme si può aprire un nuovo cosmo. Nel cinema è molto diverso perché sei solo con la telecamera, e se non funziona è game over. La cosa interessante del cinema è il fatto che la vicinanza della telecamera permetta di giocare con le espressioni, dando grande profondità ai ruoli. Teatro e cinema sono in qualche modo in simbiosi per me: il teatro mi aiuta nel cinema, e viceversa.
Prossimi progetti?
Al momento sto lavorando a Romeo e Giulietta che andrà in scena, Covid permettendo, allo Stadttheater di Soletta il 22 gennaio, poi al Theater Casino di Winterthur vi sarà Grab them by the Penis, pièce ispirata all’espressione Grab them by the Pussy di Trump, qui rivisitata da Yvonne Eisenring.