C’era una volta un pianoforte…

by Claudia

Lubecca: nella notte più magica dell’anno si compie un incantesimo musicale

I pianoforti sapete sono creature domestiche. Hanno bisogno di un tetto. Non si possono sporgere dal balcone, pertanto hanno partecipato poco anche alle suonate dalle pertinenze urbane dei mesi scorsi. Però a camminare nelle strade vuote, così imbavagliati e mascherati, uscendo per un breve giro dalle proprie cucce, gli umani hanno talvolta uditi i loro suoni provenire misteriosamente da luoghi invisibili. Per la maggior parte però i pianoforti restano silenti come una specie in estinzione.

Durante il periodo della segregazione domestica, i veri abitanti della città sono stati i senza tetto. In un mondo mascherato sembravano gli unici esseri umani rimasti.

Di solito chi è solo se ne accorge a Natale, ma in questo anno il Natale ha fatto scoprire la solitudine anche alle case ben illuminate.

Nella sera della vigilia, nel piazzale deserto davanti alla grande stazione monumentale dalla quale non partivano treni, attorno a un bidone, era un piccolo gruppo per il quale il bidone era il focolare domestico. Avevano trovato a terra una scatola di cerini di Santo Nicola, fiammiferi che una volta accesi hanno la facoltà di donare la facondia, che è la fecondità delle parole.
Allora ognuno si mise a raccontare una storia. C’era Bottiglis, il peruviano che da anni stava sempre allo stesso angolo tra Scarlatti e Settembrini e nessuno aveva mai capito di cosa si occupasse in quell’angolo già dalle nove di mattina, con la sua sigaretta e la bottiglia di birra, sempre al fianco, e poi c’era il Messia, che girava a volte scalzo e a volte con le scarpe, e non si capiva dove le tenesse perché non aveva con sé alcun bagaglio mai. Non era mai appesantito da alcun ingombro, come invece era lo Slavo, dalla statura alta e dal naso pronunciato, sempre oberato di scatoloni e di grandi borse a trolley. «Molti bagagli molto onore» era il suo motto. E poi c’era il Salvatore che dell’incrocio aveva fatto la sua croce, e derideva i cittadini imbavagliati.
Non c’erano più passanti per la sua elemosina, ma ugualmente era restato al solito posto. Rideva. «Tutti a cuccia! Vi hanno messo la museruola, e ora, tutti a cuccia dovete stare!». Rideva con la sua solita causticità verso il sistema, la Polizia e lo Stato.

Intorno passavano soltanto i ragazzi delle consegne della Globo in bicicletta. Erano in gran parte stranieri e assicuravano i pasti caldi serviti a casa ai residenti.

E poi c’erano i tram. Correvano come sempre da un capo all’altro dell’oscurità. Correvano nel buio. La strada era libera per la loro corsa verso lo strike. Erano carrozze costruite nel 1928, ben accessoriate: la lampadina, i sedili di legno lucido, le vetrate incorniciate dalla zigrinatura per i finestrini.

Restavano i tram a ricordare il vivere cittadino, una certa aristocrazia del passato. Il loro clacson come un campanello di albergo notturno, il fanale a monocolo sul muso.

I tram così in sintonia con i pianoforti, con gli ombrelli e con i gemelli. Oggetti che hanno richiesto un certo ingegno per essere creati, perché non importa che siano solo pratici, devono essere anche belli. Devono ricordarci una certa civiltà del consorzio umano, una gentilezza non soltanto formale, ma di sostanza.
Come richiamato dal tram, si avvicinò al bidone un signore intabarrato con un pianoforte sul carretto, un pianetto ambulante, di quelli fatti per portare le musiche nelle strade quando ancora non c’era la riproduzione sonora.

La musica colta per strada giunge sempre inattesa. Una canzone può aprire voragini nel cuore, può riaprire le trincee di guerra o la nostalgia di un paese lontano o di un volto amato. La musica trovata per caso ha questa possibilità spesso preclusa nel grande inquinamento acustico.

Il morbo che aveva colpito la città aveva la caratteristica di privare del gusto e dell’olfatto, ma aveva raddoppiato la sensibilità uditiva, pertanto si era tutti molto più sensibili alle note.
Il signore iniziò a raccontare la storia di quel pianetto portativo, di come era stato trovato in un magazzino di pianoforti abbandonati, dopo la guerra …«perché sapete, quando perdono casa i pianoforti, come noi, diventano orfani, e se ci si scorda di loro anche loro si scordano di noi». E così, con un accento un poco germanico il pianista ambulante iniziò il suo racconto.

«Ah! Avreste potuto trovare anche lui in Lubecca. Lì c’è grande magazine di Cermania… lì costare poco… tutti vecchi e ammassati… pianoforte… stare… Vicino a un bosco, ad un canale. Lì dentro venivano stipati i vecchi pianoforti di tutta la Germania. Era freddo, come una tomba, e illuminato con lampade spettrali… i pianoforti giacevano esausti, nelle casse impolverate. Erano di marche innumerevoli, e di vari domicili… di Lipsia, di Dresda, di Berlino… Tutti orfani di case… ma tutti con un nome… Zimmermann… Kaps… Duysen… Bechstein. Pianoforti da birrai, da fumo di carbone… abbandonati.

Piani a baionetta… piani con spinetta… piani di corvetta… marcette stinte di pianisti estinti… piani a rulli… e rotopiani… i formidabili prussiani. Ma… silenzio sui martelli… sull’avorio in scalinate, sui rulli a manovella, sui feltri impaludati… Silenzio sulle dentiere d’ebano… impilati… sui capodogli arenati… giacevano là come casse armoniche disinnescate…

Però in una notte, in una umida notte di Natale, che come per rinvenire, per festeggiare ancora con un ultimo galà, un pianoforte Duysen, vecchio, sottile, snello… di quei damerini affabili… da monocolo, con ancora un certo smalto sulle tavole… Piano piano, ruotando le sue ruote da ballo, da gran pattinatore, avvicinò le gambe nere e sottili, da sera… a quelle più grosse, a colonne larghe, di una certa pianofortessa Blüthner! Aveva ella un’aria dignitosa, vedovile. Era di color castano, con lucide striature da pelliccia sul dorso, un poco stinto e unghie bianchissime d’avorio, percorse da belle venature… propriamente una signora, di quelle d’altri tempi, da salotto, romantica per certo… sognatrice.

Quel Duysen, risvegliato, gli si fece più vicino e, come leggendole tra i feltri un’antica malinconia nascosta, sbatté gli occhi di velluto e disse… “Signora, Fräulein… non stia a pensare… a quei notturni che non ha più… a quella sua casa, ai bei tappeti… andati anche loro, come noi. È la vita, sa! La guerra! Non stia più a pensare a quelle arie di Berlino… ai saloni austeri… a quei bei spigoli di melodia, alla sua voce ferma d’un tempo, e cristallina… S’è perduta, sa! E anche noi, ora qua… Tutti venduti, come siamo, all’incanto! Signora, Fräulein! Via… Padroni non ne abbiamo più, e case nemmeno… e se gli altri ancora si sono scordati di noi… scordiamoci anche noi di quel che è stato e ci tocchi anche a noi per una volta di ballare”.

E così, sussurrando, alzò d’un tratto quella sua voce stonata e metallica e scordata, e rivolgendosi agli altri pianoforti, sonoramente li invitò: “Herr Kaps… via ci suoni col suo rullo una Berciosa! E voi con l’autopiano… col nastro americano! In piedi, forza sull’attenti! I verticali scapoli, obbedienti! Alla festa, forza, alla canzone! Via! Una melodia! Cantino le note a tre alla volta… ognuno come può… Attenti Eroici! O eleganti! E voi laggiù, caligginosi… Accendete le candele! Voi piani senza voce, stonati ubriachi… sfasciati, cani senza più padroni, non state così impalati, sull’attenti come maggiordomi! Forza, andiamo! Sull’aria di una musica involiamo!”
Si mossero allora i rulli e le spinette e fu un groviglio… fu un naufragio, un fragore di sciampagna… di bicchieri infranti… che riempì il salone, e il Duysen la diresse… e alzarono in gran coda il coperchio a modo di vela, di trinchetto… come per prendere l’aria della musica… in mareggiata, i pianoforti!

Ciondolavano all’impiedi, scompagnati, i verticali in frac… le mezzecode in tight… coi loro monocoli e malanni… e i vecchi gran marescialli oblunghi, che tossendo da dentro ai cassettoni presero a muoversi come granchi nel salone, pattinando tutti insieme, chi cantando, chi nuotando, chi ruotando. E fu a quello spettacolo allora, che la signora Blüthner commossa, piena di riconoscenza si abbandonò del tutto al legno di quel così intraprendente verticale… e una lacrima le discese tra le cerniere del coperchio… Il Duysen, galantemente, gliele asciugò col panno verde, e dopo la invitò a danzare. “Signora Blüthner, le sussurrava, non stia più a pensare… sfiori i miei tasti, prenda i miei baci, se ci hanno venduti tutti all’incanto, ora all’incanto ceda il suo cuor…” Ed ella gli rispose “Herr Duysen, che galante la canzone… certo all’incanto, cedo il mio cuor…”»

Ed ecco, come d’incanto anche lì vicino alla stazione, all’udire quella storia accompagnata dal suono di quel vecchio strumento ambulante, l’aria si riempì di echi.

I suoni venivano dalle casse legnose dei pianoforti, in ogni cortile, per strada, dalle case… si aprirono le finestre e i pianoforti iniziarono a suonare, ognuno a modo suo. I suoni si spandevano e nessuno capiva bene da dove venissero. Erano i pianoforti da ogni angolo dove erano stati riposti che riprendevano voce: dai salotti, dai garage, dai magazzini abbandonati, dai sottoscala, dalle camerette dei bambini diventati grandi. Dagli ospedali cui erano stati donati, dagli atrii della stazione e dell’aeroporto dove pure erano stati collocati. Dalle birrerie chiuse e dai locali notturni, dai pianobar senza più clienti, dalle alcove senza più amanti, dai ristoranti…

E allora tutti capirono quanto i pianoforti avessero reso migliore la nostra vita, e si affacciarono alle finestre, e piano piano un senso d’amore si sparse nella città in quella arida notte di Natale. Cessarono le delazioni, le accuse, le cose urlate per convenienza, le isterie, le malelingue, i sospetti, i complotti, i risentimenti. La gente si fece coraggio e si fece un poco più giusta. Come le quinte giuste che gli accordatori sempre cercano nell’artificio del sistema temperato, e tutti si temperarono un poco per potere suonare insieme e spartirsi la vita, assieme alla musica.