A Londra, il 17 e 18 dicembre, strane figure hanno suonato alle porte di alcune case, ma non erano gli elfi di Babbo Natale. Erano invece gli assistenti di volo easyJet, in uniforme di servizio e mascherina rossa, con il loro caratteristico carrello delle bevande e degli snack, quello che siamo abituati a veder scivolare tra le file dei sedili. L’iniziativa benefica, organizzata insieme a Deliveroo, è servita a ricordare il piacere di volare in un momento di forzata immobilità e al tempo stesso a tenere occupati gli equipaggi.
Che contrasto! Un anno fa, in questi stessi giorni, si discuteva come limitare l’iperturismo (overtourism). Barcellona, con il suo sindaco Ada Colau, era alla testa delle città (Amsterdam, Copenaghen, Venezia) decise a difendere la qualità della vita dagli eccessi del turismo di massa (spinto proprio dalle compagnie low cost come easyJet). Oggi le rambla di Barcellona sono di nuovo riservate al passeggio cittadino, certo con qualche preoccupazione economica in più: tutti hanno scoperto di dipendere dal turismo, direttamente o indirettamente, e se il turismo di massa da un certo punto di vista impoveriva la città, l’arricchiva dall’altro.
Più tempo libero e una migliore qualità della vita o una maggiore sicurezza economica? Finché non cambieremo paradigma, il vecchio dilemma è sempre d’attualità, anche se l’epidemia ha avuto il merito di porre la questione con particolare chiarezza.
Intanto, anche in un momento così particolare i bilanci di fine anno sono quasi un riflesso condizionato. In attesa di capire i tempi di somministrazione e l’efficacia del vaccino, la sensazione prevalente è che comunque un ritorno al passato puro e semplice sia impossibile. La crisi è stata troppo lunga e ha cambiato alcuni meccanismi fondamentali.
Per fare solo un esempio le compagnie di crociera (trenta milioni di passeggeri nel 2019, ora trecento navi ferme e un miliardo di dollari di perdite al mese) pensano a navi più piccole, ma ci vorranno anni per costruirle. Intanto per rispettare le norme di distanziamento sociale i giganti del mare dovranno adattarsi a un uso diverso da quello pensato dai loro progettisti (e non sarà facile dal momento che un’occupazione ridotta non consente profitti).
Anche gli aeroporti cercano di immaginare una nuova normalità; in questo caso le trasformazioni post Covid dovranno tener conto dell’emergenza climatica, probabilmente più seria dell’epidemia stessa. I piani di recupero dell’Unione europea hanno requisiti ambientali stringenti, impossibili da soddisfare nello scenario attuale.
Tutti questi cambiamenti, per quanto giganteschi, restano comunque esteriori. In forme spesso sotterranee nella forzata immobilità di questi mesi, ha preso corpo anche un ripensamento del nostro modo di viaggiare, facendo lievitare inquietudini già presenti. Negli anni Cinquanta, quando il turismo cominciò a cambiare scala aprendosi alle masse, gli intellettuali lanciarono subito un segnale d’allarme: il prevalere del consumo sull’esperienza stava trasformando il viaggio in un prodotto come tanti, snaturando il suo significato stesso di scoperta, incontro, trasformazione interiore. Ma poi il turismo ha continuato a crescere, incurante dei suoi detrattori, come sospinto da una forza inarrestabile. E in parte ha anche dimostrato di sapersi migliorare con proposte più raffinate del semplice turismo balneare. Anche per questo le critiche sono state presto archiviate come manifestazioni di snobismo (e un po’ naturalmente lo erano), la difesa di un privilegio riservato alle classi colte. L’epidemia è stato un brusco risveglio. Ci siamo chiesti: negli anni scorsi abbiamo viaggiato sulla superficie del mondo o sulla superficie delle cose? Siamo stati superficiali? Se il viaggio, come il Natale, è un Tempo di regali (titolo dello straordinario libro di viaggio di Patrick Leigh Fermor), noi quali doni abbiamo meritato?
Forse, se crediamo che viaggiare sia ancora possibile, nel senso più profondo del termine, dobbiamo imparare da capo la grammatica e la sintassi del viaggio, quasi fosse diventato per noi una lingua straniera. Prima di spingerci lontano, dobbiamo guardare con occhi diversi quello che abbiamo intorno. Due architetti di Lubiana, Aljoša Dekleva e Tina Gregorič, hanno coniato il termine nanoturismo per descrivere un viaggio a corto raggio, condiviso, dal basso verso l’alto. Sempre a Londra, dove abbiamo cominciato questo articolo, David Pearl ha fondato «La saggezza della strada» (Street Wisdom): volontari locali accompagnano i visitatori per le strade della capitale inglese, chiedendo loro di sintonizzare i sensi con il mondo che li circonda e di porsi una domanda sulla vita. Perché volare fino in India e cercare in un ashram la saggezza di un guru se questa è a disposizione ogni giorno, letteralmente all’angolo della strada?
Pearl lo chiama turismo urbano illuminista: «Quando lo mettiamo in pratica, per prima cosa spostiamo la nostra attenzione dall’interno verso l’esterno, da noi stessi a quello che ci circonda; ponendo una domanda, ci sincronizziamo con il mondo, gli diamo significato e stabiliamo una connessione. È sorprendente scoprire che la saggezza e i maestri sono ovunque e quindi anche intorno a noi».