Le luci nel buio dell’inverno islandese

by Claudia

Reportage - A rischiarare le notti e i giorni del nord, in questa stagione oscura, sono i colori più intensi che accompagnano verso il nuovo anno con un po’ di speranza

Ho messo piede in Islanda la prima volta nel 2006. Era estate, le giornate lunghissime, l’aria odorava di timo selvatico. Ricordo i colori decisi: il nero e il rosso della lava, l’infinita gamma di verdi. Ci sono più verdi in Islanda che in qualsiasi altro paese che ho visitato (e non sono pochi). Fu amore a prima vista. Una folgorazione che mi ha portata al limite della dipendenza. Fisica e mentale. Da allora sono tornata non so più quante volte, in ogni mese dell’anno. E ogni volta ho provato lo stupore della prima.
«Qui si trova pace, erba ed eterno, non c’è bisogno d’altro. So che non molti sarebbero d’accordo con me, la gente non ci vede altro che piattezza, aridità, eppure qui è bello comunque, in qualsiasi condizione atmosferica». Le parole sono di Jón Kalman Stefánsson, tratte dal suo romanzo Grande come l’universo. L’ho appena letto per nutrire la mia nostalgia in questo mondo senza viaggi, senza le ali degli aerei che ci fanno volare, trasformandoci in uccelli migratori, che tornano a casa appena cambia l’aria. Mille volte mi hanno chiesto se non sono stufa di partire per una crosta vulcanica sperduta in cima all’oceano Atlantico, che ha più pecore che cristiani, dove il tempo cambia ogni cinque minuti, in base al diktat dei venti polari, e dove, come dicono in tanti, «non c’è niente». A un certo punto, ho cominciato ad andarci anche in inverno, quando nelle giornate più corte ci sono quattro ore di luce. (Su www.azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica).
«Dicembre è il mese più buio della terra», ci racconta sempre Jón Kalman Stefánsson. In questi giorni, mentre scrivo queste note, nei fiordi occidentali islandesi (66° parallelo) il sole sorge più o meno alle 11.19 e tramonta alle 15.23. Per noi che siamo a un passo dalla solarità del Mediterraneo, a essere disturbante non è tanto il fatto che venga buio presto, quanto che la luce sembri non arrivare mai.
Ci si abitua a tutto, ma il mattino in cui ho assistito per la prima volta all’alba di mezzogiorno non lo dimenticherò mai. È innaturale, sinistro oserei dire, che il sole alle 9 non abbia neanche lanciato un timido raggio oltre l’orizzonte. E quando alle 9.30 è ancora buio pesto, si fa strada un presagio di catastrofe. Il mondo sta finendo e nessuno ci ha avvisato. Un’inquietudine simile a quella che ci troviamo a vivere in questi giorni sospesi. Eppure, in questo preciso momento, per Natale, non c’è altro posto nel mondo dove vorrei essere di più. Non in una calda spiaggia delle Seychelles. Non tra le luci festanti e le strade cariche di gente e pacchetti di Parigi, Londra o New York. Neppure nel rassicurante abbraccio di un santuario shinto in Giappone.
Non vorrei essere in nessun altro luogo perché tutto quel buio islandese fu una rivelazione. Alle nostre latitudini abbiamo quasi cancellato l’oscurità, ai limiti dell’inquinamento luminoso. Quando non ci sono lampadine e lampioni a guidare i nostri passi, ricorriamo alla torcia del cellulare per muoverci. Eppure, basta poco per riabituare gli occhi al buio e in quello dell’inverno islandese, diventano anche più sensibili. Come se imparassero a distinguere più sfumature. Il cielo, le montagne innevate, il mare si vestono di porpora, rosa di ogni tonalità e oro, pervinca, azzurri di cui non saprei neanche dire il nome. E la notte, il cielo diventa una verde milonga.
Una volta ci si affidava alla posizione della Luna e delle stelle per navigare.
Pensate che, nel 1593, Giovanni Keplero, l’astronomo tedesco, matematico e scopritore delle leggi che sottendono al movimento dei pianeti, comincia a scrivere un breve racconto di fantascienza, il Somnium, perfezionato nel 1609, ma pubblicato postumo solo nel 1634 (Somnium, Sive Astronomia Lunaris Joannis Kepleri). Vi si narra di come appare la Terra vista dagli abitanti della Luna, mettendo in dubbio la sua immobilità (quindi il sistema geocentrico tolemaico), di fatto aprendo alla teoria copernicana eliocentrica. Argomento quanto mai scottante: sono anni, quelli, in cui l’inquisizione ha il rogo facile e pare proprio fu a causa delle bozze di questo racconto, circolate in modo non ufficiale, che la madre di Keplero venne accusata e processata per stregoneria.
Cosa c’entra il Somnium con il buio, le luci e l’Islanda? Più di quanto immaginiate. Keplero scrive questo racconto per spiegare in modo semplice i complessi calcoli matematici e le teorie espresse nel suo celebre Astronomia Nova. La cosa curiosa è che sceglie come protagonista, suo alter ego, Duracotus, un giovane islandese, che apprende i principi dell’osservazione astronomica dal danese Tycho Brahe (di cui Keplero fu assistente) e poi, grazie alle arti magiche della madre Fiolxhilde (alter ego della madre dell’astronomo), proprio dall’Islanda parte per un viaggio sulla Luna. All’epoca l’ultima Thule (com’è nota l’isola) era un punto ai margini delle mappe, le sue genti considerate rozze e ignoranti, ma intelligenti, solo segnate da un impietoso isolamento geografico.
Nelle sue Note al Sogno, Keplero spiega: «in questa remota isola mi sono trovato un luogo di sonno e di sogno», in omaggio ai viaggi fantastici di celebri autori come Plutarco e Luciano di Samosata. La sua posizione, inoltre, gli appariva particolarmente felice per le sue lunghe notti «ininterrotte, certamente favorevoli all’amore per la scienza». Aggiungerei non solo per quella.
«Le stelle le vedi soltanto al buio, così ti ricordi che il buio non può spegnere ogni luce» Jón Kalman Stefánsson, tratto da Grande come l’universo.