Editoria - L’autobiografia del regista Oliver Stone, avvincente come un romanzo
Indipendente e polemico, come i suoi film. Possente. Oliver Stone nell’immaginario, e spesso anche nella realtà, è un regista con una causa. Ma dietro c’è sempre un individuo alla ricerca di qualcosa. Cercando la luce è, non a caso, il titolo della sua autobiografia (La Nave di Teseo). Avvincente come un romanzo, imponente come i suoi film migliori, è il racconto del viaggio di un giovane Ulisse, partito per trovare se stesso.
Chi ama i film di Stone esulta e al tempo stesso prova un po’ di delusione. Il libro è trascinante, scorre come un fiume in piena, già dall’introduzione che si apre in medias res durante la lavorazione di Salvador (1986). Pare di essere lì con lui su quel set messicano, mentre gira una carica di cavalleria ancora più eroica nel contesto travagliato di quella produzione. Stone ci sa fare con le parole, eccome. Nasce come sceneggiatore dopo tutto: conquista il suo primo Oscar scrivendo per Alan Parker Fuga di mezzanotte e poi firma lo Scarface di Brian De Palma. Ma queste 600 pagine e rotti che volano d’un soffio raccontano solo una parte della sua storia. Si fermano allo sdoganamento definitivo grazie all’Oscar conquistato nel 1987 con Platoon. Non si dice nulla o quasi di quello che è venuto dopo, di capolavori acclamati come JFK o di pugni nello stomaco pulp che hanno fatto discutere come Assassini nati.
È un racconto di formazione in fondo, con i tormenti del giovane Oliver che cerca la sua strada nelle giungle della famiglia, del Vietnam e poi di Hollywood. L’animo del futuro regista, nato nel 1946 a New York, è sempre a fuoco. Un figlio della classe media che vivrà costantemente la pressione di essere all’altezza delle aspettative e l’incubo del fallimento. La ricerca del successo è spasmodica, ed è il leitmotiv di Cercando la luce. Si percepisce il sollievo con cui Stone ripete spesso che a quarant’anni aveva vinto l’Oscar, aveva una moglie (la seconda) e un figlio. C’è qualcosa di scaramantico nel sottolinearlo a se stesso e ai lettori, come per renderlo davvero reale. Il racconto è schietto e onesto. Non sorvola sulle droghe, con cui inizia a flirtare ai tempi del Vietnam e sul periodo di dipendenza da cocaina nel caleidoscopico mondo del cinema degli anni Ottanta. Non sorvola su un rapporto con i genitori che ha qualcosa di edipico, il padre impiegato nella finanza della vecchia Wall Street (quella «nuova», Stone la inchioderà come un insetto con uno spillone in uno dei suoi film più celebri) e la madre francese, spirito più libero, conosciuta dal padre durante la guerra: una coppia sposatasi troppo presto che divorzierà lasciando traumi profondi nell’unico figlio.
Poi c’è il cinema. Ci entra per caso in quel mondo. Ha sempre cercato di esprimersi con la scrittura: non saranno romanzi ma sceneggiature. Finisce alla New York University, dove fra gli insegnanti c’è anche un giovane brillante astro nascente che risponde al nome di Martin Scorsese. È l’inizio di un percorso picaresco, in compagnia di produttori, attori, filibustieri, trafficoni, gente che lo frega, guai con le produzioni, copioni che passano di mano, sogni che si arenano o si realizzano. Scorrono in queste pagine personaggi come Dino De Laurentiis, James Woods, Al Pacino, Parker o De Palma… È un dietro le quinte della macchina del cinema, coi piedi ben calati per terra e privo dell’aura mitologica con cui gli spettatori spesso lo ammantano.
Per arrivare fin lì però Oliver Stone è dovuto passare attraverso la guerra. C’è qualcosa che gli si agita dentro, mai del tutto definita. Ha mollato la prestigiosa università di Yale, è già andato in Vietnam, come insegnante in una scuola cattolica e poi si è imbarcato nella marina mercantile. Ha scritto un romanzo ma non è riuscito a pubblicarlo. Si sente mediocre, fallito. Ha vent’anni ed è affranto. Parla di hybris citando gli amati greci. Sta di fatto che si arruola volontario, punizione autoinflitta per la propria tracotanza. Vede come è davvero, quanto è sporca quella guerra, viene pure decorato. Quando torna, ha addosso una rabbia profonda. Il seme di Platoon, è piantato. Ci metterà più di quindici anni a svilupparsi e a diventare ciò che oggi conosciamo, uno dei più emblematici film sul Vietnam. Lì dentro c’è anche l’anima degli altri film di Stone: brutale quando parla di una verità di cui è affamato, profondamente critico verso il potere e i suoi maneggi, diffidente verso le versioni ufficiali. Violento se deve, machista e muscolare in una palude di celluloide dove il compromesso è la regola.
Guardandola da questa angolazione, l’autobiografia che termina nel 1987 con Platoon, forse stupisce meno. È come se per Oliver Stone le battaglie davvero importanti siano state combattute allora e il resto sia stato solo la conseguenza della vittoria inseguita, sfuggita più volte e alla fine conquistata a prezzo di sacrifici. Non l’Oscar, ma il sapere di avercela fatta e di aver trovato finalmente una luce rincorsa tutta la vita.