Lutti – L’architetto ticinese che ci ha lasciati alcuni giorni fa è stato un autorevole maestro riconosciuto a livello internazionale
«Quello che impressiona subito delle case di Snozzi è la razionalità, la trasparente intelligenza, l’efficace sistema ordinatore; e nonostante ciò, la sopravvivenza della freschezza, fino alla naturalità e ad una nuova seconda spontaneità». Così scriveva Alvaro Siza nel 1993, dopo avere visitato casa Diener di Luigi Snozzi.
Ha progettato molto, ha realizzato poco e non ha lasciato scritti sistematici, soltanto brevi relazioni, interviste e i suoi aforismi. Ciò nonostante Luigi Snozzi è stato un maestro tra i più autorevoli, riconosciuto come tale da architetti in tutto il mondo.
Il più noto ed efficace dei suoi aforismi dice che «quando progetti un sentiero, una stalla, una casa, un quartiere, pensa sempre alla città». La tensione di ogni progetto verso l’urbanità, il concetto della città come il modo più evoluto di abitare, come il luogo per eccellenza delle relazioni sociali, è stato al centro del suo pensiero e del suo insegnamento, svolto in molte università e soprattutto a Losanna, dove è stato professore di ruolo dal 1885 al 1997, nominato in seguito alla forte richiesta degli studenti.
L’attività che più l’ha fatto conoscere al grande pubblico in Ticino è stata la progettazione alternativa. Quando è stato, per 12 anni, membro della Commissione cantonale Bellezze naturali, deputata ad esaminare i progetti più rilevanti dal punto di vista del paesaggio, contestava quelli sbagliati elaborando controprogetti esemplari, che sono stati definiti da Kennet Frampton «progetti guerriglia».
Il suo progetto forse più visionario è Delta Metropolis, concepito insieme a Paulo Mendes da Rocha. Nell’area centrale dell’Olanda, un viadotto ferroviario circolare alto 30 metri collegava le quattro città più importanti, situate appena all’esterno del suo perimetro. Il viadotto definiva i limiti di una immensa area verde da salvaguardare, collegava le città con una ferrovia veloce e orientava all’esterno le loro espansioni edilizie, con una costruzione che rammenta quella delle mura dei borghi medioevali, con un effetto ribaltato. A chi gli contestava il carattere utopico della proposta, Snozzi rispondeva affermando il realismo di un progetto di pianificazione territoriale semplicemente fondato sulla costruzione di un viadotto.
Il suo progetto più importante è certamente il piano di Monte Carasso, dove ha realizzato diversi edifici. La città viene densificata intorno al grande vuoto dello spazio pubblico, dove vengono insediati gli edifici delle istituzioni e dei servizi collettivi. La pesante e rigida normativa tradizionale dei piani regolatori viene sostituita da poche norme elementari, annullando, tra le altre, le prescrizioni relative alle distanze, che impediscono di realizzare la continuità delle costruzioni, tipica delle parti più antiche delle città e dei villaggi. Il piano è un work in progress: di volta in volta l’esame dei singoli progetti può comportare dialetticamente modifiche e adeguamenti della normativa e il processo di continua trasformazione delle previsioni viene condotto con la partecipazione degli abitanti.
L’esperimento di Monte Carasso ha un valore culturalmente rivoluzionario e sovverte una pratica pianificatoria consolidata in quasi tutto il Continente. Meta di visite di architetti e di esperti da tutto il mondo, tuttavia, l’esperienza di Monte Carasso non ha avuto repliche in altri villaggi e città.
La tensione verso l’urbanità – che è un tratto largamente condiviso e comune della cultura architettonica ticinese – è rimasta di fatto insoluta, per la mancanza di occasioni professionali e per la politica liberista che è stata egemone nei gruppi dirigenti. Le piccole città ticinesi non hanno vissuto i processi di industrializzazione e immigrazione che hanno formato le città europee del Novecento. Sono rimaste piccole e la nuova domanda di abitazioni del dopoguerra è stata soddisfatta, invece che nelle città, con la costruzione di case diffuse nel territorio. «Sarebbe una triste ironia che i celebrati architetti del Ticino dovessero ricercare in terra straniera… la possibilità di materializzare la propria proposta di trasformazione della città», osservava con lucida amarezza Alvaro Siza, nello stesso scritto che abbiamo citato all’inizio.
L’intensa relazione che le opere degli architetti ticinesi dagli anni Settanta e Ottanta intessono con il contesto naturale e con le tracce topografiche deriva dall’elaborazione della tensione per realizzare la densità di relazioni propria della città, applicata al contesto del paesaggio naturale e delle aree scarsamente abitate. Di questa relazione Snozzi è stato il più importante pensatore e un raffinato poeta. Ha usato il cemento armato per riprodurre, aggiornandola al nostro tempo, la riduzione formale propria dei muri in pietra delle costruzioni più antiche. Ci ha insegnato che la modernità non è definita una volta per tutte, non è un canone: bisogna tradurre la modernità nella lingua del territorio, facendo sempre i conti con la sua storia e con la sua geografia. Il legame profondo degli edifici con il sito – ci ha insegnato – non si può tradire, pena la fragilità dell’architettura rispetto al logorio del tempo e pena la sua irrilevanza sociale, l’incapacità di modificare lo stato delle cose. Il valore civile del mestiere dell’architetto sta proprio nella consapevolezza della necessità di modificare lo stato delle cose, di far progredire il modo di abitare.
Il pensiero di Luigi Snozzi costituisce oggi il supporto culturale comune dei migliori architetti ticinesi, quelli cioè che partecipano ai concorsi e realizzano le opere pubbliche. Il loro lavoro, pur nella differenza dei linguaggi, ancora consente di distinguere l’architettura del Ticino per la chiarezza dei principi e per le forme rigorose.