John Berger scriveva che «dopo aver guardato un’opera, lascio il museo o la galleria in cui è esposta e provo a entrare nell’atelier in cui è stata creata. Parlo tra me e me, e mi rivolgo all’artista che forse conosco, o che magari è morto da secoli». In questa tipologia di incontri sembrano rientrare anche i diciassette saggi scritti da Julian Barnes. Nei due casi si tratta infatti di storyteller (Berger aborriva la definizione di «critico d’arte») che accostano parole a immagini di grandi pittori; anche lo scrittore inglese, autore de Il senso di una fine e Il porcospino, si inserisce in quella tradizione del saggio anglosassone dalla prosa erudita e brillante, frutto anche della consultazione di fonti documentarie, che con ironia e piglio narrativo conduce il lettore alla scoperta di celebri dipinti.
Nel caso de La zattera della Medusa di Géricault Barnes ne indaga la genesi, dall’evento storico del naufragio della fregata francese Meduse nel 1816, passando per la preparazione e il racconto della realizzazione del dipinto, fino alla lettura dettagliata del quadro, che si dipana per ipotesi, ognuna esplorata e poi scartata; Barnes è uno scrittore che segue le linee narrative suggerite dall’immagine – «un trionfo di muscoli e dinamismo» –, tenendo tutti i fili, seminando indizi, da accorto romanziere, fino alla conclusione senza dimenticare il contesto storico e il destino che la critica ha riservato al dipinto, tanto apprezzato da Delacroix (e per il quale aveva anche posato) e liquidato invece dallo stesso Géricault in punto di morte come «une vignette!».
Barnes ripercorre il periodo che abbraccia il passaggio dal romanticismo al realismo al modernismo, che «non era stato meraviglioso in tutte le sue parti», senza rinunciare a incursioni anche nella contemporaneità con i testi dedicati a Oldenburg e ai ritratti del «maestro dei corpi» Lucian Freud, per concludere con un saggio sull’amico Howard Hodgkin, pittore che più di altri «ha attratto l’attenzione di chi sa raccontare, descrivere, immaginare, spiegare», ovvero degli scrittori. Perché in fondo la sfida, o il paradosso, che lega tutti questi saggi è il rapporto fra la parola (poetica) e l’immagine (artistica), ovvero quanto la parola può davvero «tradurre» la pittura; secondo Leonardo da Vinci infatti «la pittura serve a più degno senso che la poesia, e fa con più verità le figure delle opere di natura che il poeta, e sono molto più degne le opere di natura che le parole, che sono opere dell’uomo».
Parole che sembrano riecheggiare nella «professione di fede» del grande maestro del realismo, quel Gustave Courbet a cui Barnes dedica un ampio testo, concentrandosi su una opera fondamentale – L’atelier dell’artista –, un quadro-manifesto che inneggia alla bellezza della natura, considerata superiore a ogni arte accademica e romantica. «Dovremmo sempre affidarci (e dare giudizi) al quadro piuttosto che al manifesto tanto decantato. Il richiamo alla concretezza del realismo non esclude l’allegoria, il mistero o l’irriverenza – come nell’Atelier» scrive Barnes, analizzando il dipinto del pittore francese, autore dello scandaloso L’origine du monde, senza tralasciare dettagli sulla tumultuosa biografia di Courbet, che negli ultimi anni della sua vita, dopo la caduta della Comune di Parigi, deve riparare in Svizzera, dove muore nel 1877.
In parte ancora avvolta nel mistero è invece la genesi delle tre versioni dell’Esecuzione dell’imperatore Massimiliano di Manet, opera bandita in Francia ed esposta, senza grande successo negli Stati Uniti, che riporta in primo piano il tema del rapporto fra arte e storia e quello – sempre attuale – della censura, in questo caso legata alla reputazione dell’artista.
Altro appassionante capitolo riguarda il rapporto di collaborazione e di rivalità fra Picasso e Braque, due personalità complesse e complementari; un rapporto di cui Barnes fornisce una utile rilettura, mettendo l’accento sull’influenza di Braque.
Per Julian Barnes la vera passione per l’arte comincia nel 1964 quando ragazzo visita a Parigi il museo dedicato a Gustave Moreau, artista di cui apprezza la stravaganza, ma che a mezzo secolo di distanza, di ritorno nel museo-atelier del maestro simbolista, considera privo di estro. Dalla fine degli anni Ottanta, quando comincia a scrivere di arte, lo scrittore ammette di aver capito quanto «in tutte le arti coesistessero due elementi: il desiderio di qualcosa di nuovo e un’ininterrotta conversazione con il passato» e che l’arte non era un tentativo di trasporre e comunicare il fremito della vita, bensì era in molti casi quel fremito.
E se anche di fronte a un’opera d’arte non riusciamo a rinunciare alle parole, «rimaniamo, inguaribilmente, creature verbali che amano spiegarsi le cose, formarsi delle opinioni, dibattere», contrariamente a quanto sostiene Flaubert che credeva «fosse impossibile spiegare una forma d’arte usando il linguaggio di un’altra forma d’arte». Inevitabile per Barnes dunque affidarsi alle parole, che a volte compongono prose che sono esempi di una personale interpretazione dell’ekphrasis, antico genere letterario che designava la descrizione di un’opera d’arte. «Fidati della narrazione, e non del narratore».