Il fondatore del social network, Jack Dorsey, ha dei collaboratori ai quali concede molta autonomia e fiducia. Una di questi è Vijaya Gadde, capo dell’ufficio legale e safety expert. Quando il 6 gennaio 2021, Trump ha oltrepassato il limite, incitando i suoi fan alla rivolta, Gadde ha chiamato il suo capo e l’ha informato di un fatto significativo per la loro azienda: la decisione di «sospendere temporaneamente l’account del Presidente».
Probabilmente, dall’altra parte del telefono, Dorsey ha passato un brutto quarto d’ora, ma coerente con se stesso, ha risposto: «procedi pure, questa decisione è una tua competenza».
Per comprendere la grandezza della risposta di Dorsey, bisogna considerare che erano quattro anni che si trovava sotto assedio da parte dei leader democratici, degli investitori liberal della sua azienda e dei propri dipendenti per intervenire sull’account del Presidente, ma aveva sempre spostato avanti la decisione.
Nei giorni seguenti alla sospensione, e poi dopo la cancellazione definitiva dell’account @realDonaldTrump, Dorsey, ha espresso la sua opinione in una serie di post che possono essere riassunti con il seguente concetto: «la cancellazione dell’account di Trump è stato un fallimento nella nostra attività di promozione di conversazioni equilibrate su Twitter».
Per tutti, invece, la decisione è stata una «buona scelta», perché le circostanze sembravano davvero portare a un esito che sarebbe stato indesiderato.
Tuttavia, quella decisione presa da un legittimo responsabile legale di una società privata, è stata un punto di svolta per tutta l’industria tecnologica, poiché il dibattito si è surriscaldato parecchio intorno ai limiti di potere di queste società e sul loro livello di controllo e intervento nei dibattiti online.
Nelle ultime settimane abbiamo letto opinioni provenienti da rappresentanti di diverse aree di pensiero e di professione: esperti di privacy, professori delle più famose università, politici di ogni risma, esperti costituzionalisti e di comunicazione.
I punti in discussione sono: 1) potevate intervenire prima, avete lasciato scorrazzare libero Trump perché vi tornava comodo per lo sviluppo della vostra piattaforma e forse perché avevate paura del potente di turno; 2) avete chiuso il suo profilo, ma nel mondo esistono decine di altri soggetti che continuano indisturbati a bullizzare i loro avversari via Twitter e 3) non tocca a Twitter intervenire in modo tanto brutale nel dibattito politico zittendo quello che probabilmente era l’uomo più potente al mondo.
In realtà, un precedente ci fu il mese di marzo scorso, quando un tweet del presidente del Brasile Bolsonaro, altro soggetto caratterizzato da una certa vivacità comunicativa, fu valutato come critico per via del contenuto che promuoveva: false cure contro il coronavirus. Ma in quel caso, il tweet non fu cancellato, venne aggiunto un adesivo che informava l’utente circa una violazione delle regole di Twitter. La stessa procedura fu adottata per i post pubblicati dal presidente Trump dopo le elezioni di novembre.
Il punto effettivamente delicato è il potere che un’azienda, o meglio, dei dipendenti incaricati di monitorare le conversazioni online dentro un social network, possano avere sulla conversazione pubblica globale.
I mezzi di comunicazione di massa, tutti quanti, e quindi anche Twitter, sono delle istituzioni sociali che hanno regole e norme proprie e che contribuiscono a definire la realtà sociale, esprimono valori, offrono uno spazio in cui si svolgono importanti processi culturali.
Rispetto a un quotidiano o a un canale televisivo, Twitter è un media in cui l’intermediazione del giornalista è assente, ognuno può presentare la propria visione della società e contribuire alla formazione dell’opinione pubblica.
Da qualche anno – non molti, ma sono stati intensi – ci troviamo nell’età della tecnologia che ha ridefinito le funzioni e le potenzialità dell’intero sistema comunicativo.
Il social network è un mezzo che deroga alla regola di stare «in mezzo» tra quel che succede e il lettore, proponendosi come filtro adatto per mostrare i fatti secondo la visione del giornalista.
In assenza di filtro, è come andare sulla neve senza gli occhiali da sole, può andarti bene che in una splendida giornata vedi la natura nella sua bellezza esplicita, che non richiede didascalie, perché evidente, oppure può andarti male e finisci in un burrone, tanto che l’aiuto di un bel paio di lenti sarebbe stato utile.
Non c’è da stupirsi che, a un certo punto, i giornalisti abbiano perso il piglio sulla società, perché tutti abbiamo pensato che potessimo essere in grado di interpretare il mondo senza filtri. Purtroppo, ci siamo distratti, rinunciando al ruolo fondamentale del giornalista, e cioè quello di aiutarci a unire gli eventi tra loro per costruire una trama sensata e, in fin dei conti, per aiutarci a capire ciò che ci circonda.
La brevità delle frasi, l’uso di una impostazione a slogan, hanno fatto il resto, rendendo facile la fruizione, ma spesso tralasciando il gusto dell’approfondimento, portando molti di noi a cumulare un notevole deficit di attenzione.
Un’altra curiosa dinamica opposta al passato, è la riduzione delle fonti. Non più mille giornali, ma tre o quattro social network e non più pochi interpreti per ogni network, ma una moltitudine per pochi network.
Allora è proprio questo il tema. Se sei editore di uno dei tanti giornali di questo mondo e decidi di non ospitare più o commentare i deliri di un presidente, ce ne faremo una ragione e alla fine saranno pure fatti tuoi, poiché le alternative sono garantite.
Ma se sei il proprietario di un medium che offre al presidente di turno un audience di 88 milioni di lettori e sei – di fatto – l’unico o tra i pochi, allora la partita cambia di livello e, prima di agire, o di dare tanto potere discrezionale alla tua responsabile dell’ufficio legale, magari ci pensi due volte e semmai ti consulti con un ente terzo, che possa dare una lettura alternativa o perlomeno abbia un ruolo consultivo rispetto a quello dei tuoi dipendenti.