Un bambino è svegliato dal suo cane che gli lecca delicatamente il naso e chiede che cosa sta facendo Blu (così si chiama il cane). Risponde l’animale: «Non volevamo partire senza salutarti». Il bambino si rende conto che il cane è in compagnia di una signora seduta sul bordo del suo letto: «Non temere, non volevamo spaventarti… io sono la morte». «Per essere la morte non mi fai tanta paura», le dice il bambino al quale lei risponde: «A dire il vero, io non ho mai voluto far paura a nessuno».
Dopo il nostro colloquio con la dottoressa Claudia Gamondi (primario di Cure palliative allo IOSI e dal marzo scorso attiva all’Ospedale Covid La Carità di Locarno) e con lo psichiatra Michele Mattia (presidente Asi-Adoc) che lei ha voluto presenziasse, pensiamo all’incipit di questo racconto, ancora incompiuto, che l’autrice scriverà per spiegare la morte ai bambini dal punto di vista filosofico. Complici i dati di contagi, ricoveri, guariti e persone decedute, la pandemia che da un anno ci attanaglia ha portato alla luce una società permeata dal tabù del morire, mettendoci dinanzi a tutte le sue sfumature. A questo punto, tutti conosciamo persone che si sono ammalate e guarite, sappiamo di altri che sono deceduti o amici che hanno perso un loro caro.
Torna alla ribalta la nostra concezione della morte, con la dicotomia che oggi la accompagna e che il dottor Mattia spiega così: «Nel pre-pandemia la morte pareva non appartenerci perché era delegata ai curanti: non si partecipava in prima persona all’accompagnamento al lutto. Oggi, la pandemia ci ha messi di fronte all’epilogo della vita di cui abbiamo compreso volerci riappropriare. Prima, la “delega” ci conveniva, mentre ora che vorremmo riappropriarci della morte a casa, la pandemia non ce lo permette: vogliamo sempre ciò che ci viene tolto “quando sono gli altri a togliercelo”, come in questo caso la pandemia».
Questa è pure la situazione con cui da mesi si confrontano i curanti negli ospedali Covid. Ne parliamo con la dottoressa Claudia Gamondi che coordina il suo team di Cure palliative prendendosi cura di pazienti che necessitano questo genere di percorso: «È importante ricordare che essere seguiti dal team di Cure palliative non vuol dire morire: ad esempio, il 30 per cento dei pazienti con malattia da Covid-19 seguiti da noi durante la prima ondata sono poi guariti».
Il concetto di cure palliative è evoluto e va spogliato del pregiudizio di solo accompagnamento alla morte e uso di sostanze come la morfina per condurre alla fine. Non è così: «Durante la fase di ricovero, per ogni paziente viene indicata l’appropriatezza delle cure necessarie in base alla complessità della situazione clinica e ascoltando le volontà (preferenze) del paziente stesso. Perciò, aiutiamo i pazienti nella gestione dei sintomi, delle relazioni con i famigliari, aiutandoli ad esempio a mantenersi sempre in contatto e in relazione tra loro. Li sosteniamo a livello umano e spirituale durante la degenza. Ci siamo per paziente e famigliari anche quando la morte è inevitabile, essendo un momento altrettanto delicato e importante».
La dottoressa spiega che il paziente con malattia da Covid-19 è valutato in tutti i suoi bisogni e, quando necessario, vengono coinvolte le Cure palliative che operano in collaborazione con la medicina interna. Nessuna privazione di cure, ma un’integrazione di diverse specialità della medicina che garantiscono quelle appropriate in ogni momento della malattia, con pazienti supportati laddove la necessità lo impone. Questo è l’impegno di chi opera nel reparto Cure palliative, pure confrontato con l’altra faccia della medaglia, quando il paziente purtroppo decede: «Già durante la prima ondata abbiamo compreso l’importanza della vicinanza con i propri cari, a maggior ragione nei momenti critici. Perciò, con protezioni adeguate, accompagnamento, sostegno e le dovute attenzioni, ai parenti che ne manifestavano il desiderio abbiamo permesso di vedere il proprio caro, coscienti del fatto che separazione e isolamento in momenti cruciali della vita (prima di venire intubati o di fronte al rischio concreto di morte) non fossero accettabili dal lato umano».
La dottoressa parla in modo accorato: «Dobbiamo far sì che il distanziamento sociale non si traduca in un distanziamento relazionale, soprattutto in momenti emblematici della vita dei pazienti e dei loro famigliari: è la morte a separare, non devono farlo le persone. Lo abbiamo imparato gestendo i rischi nei limiti della ragionevolezza, evitando ogni estremizzazione e sostenendo i famigliari che erano pronti a non mancare a quell’importante appuntamento della vita che potrebbe essere un ultimo saluto».
A mesi dalla prima ondata speriamo di essere all’epilogo della seconda, ma qualcosa su cui riflettere rimane: «C’è più ponderazione, sì, ma assistiamo a un’influenza nefasta che alimenta i terrori: oggi alcuni sembrano avere più paura di contagiarsi rispetto a prima e purtroppo ci sono famigliari che, in difficoltà su come gestire il rischio, non se la sentono di condividere con il proprio caro questi momenti». Sottolineando la sicurezza delle misure di protezione poste in essere, e che fino a oggi nessun parente si è ammalato venendo a trovare il proprio caro, Gamondi teme che in questi casi il percorso del lutto possa essere più complesso per aver lasciato qualcosa in sospeso.
D’aiuto, le riflessioni dello psichiatra: «Ogni atto merita di essere portato a termine. Pensiamo a una relazione che si spezza con una persona (filiale, coniugale, amica): l’atto terminale fa sì che questa sorta di lutto possa essere elaborato e non resti sospeso dentro di noi. Se cade una telefonata viene naturale richiamare per non lasciare qualcosa in sospeso, no? Tutte le relazioni necessitano del saluto finale. Il non farlo sarebbe un atto mancato perdurante e ci porterebbe nella dimensione di qualcosa rimasto pendente: un atto che non è più ripetibile perché poi l’altro non c’è più».
Entrambi riflettono sulla dimensione di «psicosi da Covid»: «Rischiamo di entrare in una dimensione di ego-sintonia: salvo la mia persona a discapito di quella relazione affettiva che ci è stata tolta dalla malattia e alla quale noi stessi rinunciamo per l’estremo timore del contagio». Questa pandemia ci toglie molto, ma altrettanto ci può insegnare. «Anche non sentirsi in colpa se non si riesce ad andare a salutare il proprio caro», spiega Gamondi, alla quale chiediamo come si sente oggi, dopo mesi di Cure palliative nei reparti Covid: «Abbiamo guarito tante persone, abbiamo assistito a tante morti. Lutti numerosi e ravvicinati mi lasciano un senso di umana tristezza a cui si accompagnano un po’ di stanchezza emotiva e fisica. D’altra parte, ho la sensazione di aver contribuito, assieme al mio team, a portare sollievo nell’inesorabile di ciò che accadeva e ancora accade».