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Reportage - Uzbekistan, un giovane Stato in cerca dei suoi antenati
«Amir Timur omon bo’lsin!», «Lunga vita ad Amir Timur!». S’alza forte il grido dell’omone sotto la statua, tra i vialetti del parco spoglio e arioso come una piazza d’armi. È un grido di guerra, le braccia alzate per richiamar lo sguardo e le foto degli amici col vestito della festa. I bambini corrono in giro per i prati tosati di fresco, in questo giorno ch’è quasi d’estate.
Amir Timur ci guarda da lassù, come una volta scrutava i suoi soldati: turchi, turcomanni, tatari, mongoli, persiani, indiani… Tutti figli d’un impero che alla sua morte, nel 1405, andava dal Mar Nero fino a Delhi. Tamerlano, Timur-e-Lang, Timur lo Zoppo, così chiamato per una ferita alla gamba, «è il nostro eroe, l’eroe degli uzbeki!» mi spiega l’omone, allentando il nodo della cravatta che stringe sul collo taurino e che lo fa sudare, in questo sabato di matrimoni e spose in bianco venute, come s’usa, a farsi benedire dall’effigie. Io annuisco con un sorriso, però non son d’accordo.
Certo Tamerlano, turco-mongolo della tribù Barlas, era nato qui, sì, a Shahrisabz, dove mi trovo ora. E la capitale del suo impero era Samarcanda, distante meno di cento chilometri. Ma tutto questo fu cent’anni prima che calassero le orde uzbeke da Astrakhan, dalla Siberia, spazzando via i cocci della sua dinastia (i Timuridi) per fondarci i loro khanati: di Khiva, Bukhara, Kokand.
Queste dotte distinzioni all’omone non importano, né agli uzbeki tutti. Persi per secoli nei meandri dell’intricata storia dell’Asia centrale, essi sono nati al mondo come cittadini dell’Uzbekistan nel 1924, quando Stalin disegnò sulle carte geografiche, a tavolino, la loro repubblica. Nel 1991, con la dissoluzione dell’Unione sovietica, l’Uzbekistan ha avuto vita propria, così com’era. E dentro quei confini casuali non ci sono solo uzbeki: per fare solo un esempio i tagiki sono tuttora in maggioranza nelle sue due città storiche di maggior lustro, Bukhara e Samarcanda.
Tamerlano è forse la miglior narrazione del nuovo regime: in cambio della naturalizzazione, restituisce un comune antenato pieno di gloria. Cosa c’è di meglio d’un conquistatore del mondo in quest’epoca di risorgimento? Lo sapeva bene Islom Karimov, ex uomo forte dell’URSS, per venticinque anni sul trono di Tashkent, la capitale uzbeka, dall’indipendenza alla sua morte, nel 2016. Le sue statue rivaleggiano ora con quelle dell’emiro.
Shahrisabz è una perla meno nota in questo paese delle meraviglie. Sono qui i monconi del portale smisurato del Palazzo bianco di Tamerlano. Alto come un edificio di venti piani, fu distrutto proprio dagli uzbeki. In lontananza si vede la neve delle montagne tagike, che più a est diventano Hindukush, Karakoram, Himalaya. Son le prime che incontro dopo deserti e oasi dalla partenza da Khiva, nella provincia uzbeka del Khorezm. Con la sua anima di sabbia e polvere Khiva pare sorta dalla terra e levigata dai venti delle steppe. Come quello che soffiava l’altro giorno mentre stavo in cima alle mura dell’Ark, la fortezza, circondato dal volo delle rondini: da lassù guardavo le cupole azzurre e i minareti, gli archi e le vie lastricate di fresco dove gli spazzini lustrano il cammino dei milioni di turisti che negli ultimi anni hanno fatto rinascere qui i fasti della Via della seta, perduti nel Cinquecento quando i vascelli e gli oceani si sostituirono alle carovane di cammelli e ai deserti. Qui come a Bukhara, a Samarcanda, un tempo leggendari centri nevralgici di questa via millenaria, coi loro bazar, caravanserragli, hammam, turbanti e caffetani, mercati di schiavi iranici o russi, fruste, sete, organze, tappeti.
La città che più parla di Tamerlano è proprio Samarcanda, l’amata capitale del suo impero. Ed è proprio lui, gigante, che m’accoglie seduto su un trono, in mezzo a un rondò che è una giostra di clacson, di macchine e camion. Samarcanda è una città poliedrica: moderna, sovietica, zarista, e poi antica, uzbeka, timuride. I monumenti più importanti sono restaurati di fresco che sembrano fatti ieri, tutti piastrelline e mattoni nuovi. A Samarcanda si parla russo, uzbeko, o anche tagiko, a seconda dell’interlocutore. Tamerlano, che parlava il chaghatay, una lingua turco-mongola da cui deriva anche l’odierno uzbeko, ora riposa in pace sotto alla cupola azzurra del suo Gur-e-Amir, la Tomba dell’emiro, in stile persiano, non lontano dall’enorme moschea che dedicò a sua moglie, la discendente di Gengis Khan Bibi Khanum. L’interno del mausoleo è ampio, pieno d’archi, decorazioni d’oro e turchese, sure coraniche che paion disegni.
Davanti alla tomba di Timur, un barbuto pellegrino di nome Surik, venditore di copricapi di Khiva, dopo aver pregato (e pianto), mi racconta della scritta sulla lapide, che ne vieta la rimozione, pena lo scatenarsi di terribili sciagure. Come accadde, dice, due giorni prima dell’attacco hitleriano alla Russia, nel giugno del 1941, quando l’antropologo Gerasimov la scoperchiò per portare il corpo imbalsamato a Mosca e studiarlo.
Infine, a Tashkent, il condottiero m’appare nuovamente, immortalato a cavallo, forse alla vigilia di quell’attacco alla Cina dei Ming che non sferrò mai, abbattuto dalla malattia quand’era già sul piede di guerra. Sta là, sul piedistallo che un tempo fu di Marx.