Alla pausa invernale, il FC Lugano era su, in alto. Flirtava con i vertici della classifica. Qualcuno sognava in grande. Al rientro, i bianconeri hanno cominciato a balbettare. Non hanno perso molte partite, ma fanno fatica a vincerne. Stanno scivolando sempre più giù. Dopo la stangata contro il Losanna, il limbo si è avvicinato. Ma la squadra di Maurizio Jacobacci si è rialzata. Ha vinto a Sion, ed è tornata a respirare aria d’Europa.
Dopo la sconfitta casalinga contro lo Zurigo, gli scenari sono tornati ad avere contorni un po’ più apocalittici. Ma la vittoria a Vaduz ha riscaldato il cuore a Società, giocatori e tifosi. Dalle stelle alle stalle, il passo è breve. Oppure per dirla più elegantemente col Manzoni «Due volte nella polvere, due volte sull’altar». Ma i bianconeri non sono Napoleone Bonaparte. Hanno, sì, dei sostenitori, ma non un esercito quasi invincibile. Devono lottare giorno dopo giorno per evitare di precipitare nel purgatorio della Challenge League. In questo continuo ed altalenante su e giù sono tuttavia coinvolte tutte le squadre, ad eccezione dello Young Boys, che tre anni or sono ha aperto un ciclo vincente, e pare non avere alcuna intenzione di spezzarlo. Se nel ciclismo, come diceva Alfredo Binda, per vincere «ghe vören i garun», nel calcio è indispensabile la vil pecunia, «i danée».
In Svizzera, dopo l’era Grasshopper (27 titoli nazionali), figlia della Zurigo industriale e finanziaria, c’è stata quella del Basilea targata Gigi Oehri / Hoffmann-La Roche. (20 trionfi, 12 dei quali nel terzo millennio). La storia dello Young Boys ha cambiato rotta quando, pochi anni fa, ci aveva messo le mani il compianto miliardario Andy Rihs, proprietario di Phonak Hearing System. L’ultimo trionfo non appartenente all’asse Zurigo-Basilea-Berna risale alla stagione 1999-2000, al termine della quale fu il San Gallo a imporsi. Nel calcio di oggi, un simile miracolo è poco probabile. Da quando le Coppe europee, Champions League in primis, sono diventate iper-lucrative, i grandi club possono alimentare a dismisura la loro ricchezza e la loro potenza. Vincono in Svizzera, vendono all’estero i loro migliori giocatori, ottengono denaro dall’Uefa, lo reinvestono per continuare a vincere in Svizzera.
Da alcuni anni assistiamo a un campionato a due velocità. Con una o due squadre che hanno i mezzi per vincere, e tutte le altre a lottare nella striscia sempre più stretta e compressa che separa l’Europa League e la retrocessione. Ovviamente neppure il Lugano si sottrae a questa logica. Come si diceva sopra, bastano due partite storte a trasformare il sogno in incubo. Non credo che tale situazione sia da imputare alla capacità o alle presunte incompetenze dell’allenatore. È così, non si scappa.
Era capitato con Zeman, Tami, Celestini e con altri. Capiterebbe, pur non avendone le prove, con un eventuale avvicendamento sulla panchina. E questo anche se la dirigenza sta facendo tutto quanto è nelle sue possibilità. Sono giunti degli innesti. Sì, ma a Cornaredo è approdato, ad esempio, Reto Ziegler, buon calciatore di caratura internazionale, proiettato tuttavia verso la parabola conclusiva della carriera. È giunto anche Asumah Abubakar. L’attaccante di origini ghanesi è stato salutato come il bomber che avrebbe risolto i perduranti problemi di sterilità offensiva. Ma, con rispetto, ci si è dimenticati che la nuova punta, qualche rete l’aveva segnata con la maglia del Kriens, squadra che naviga nelle parti basse della Challenge League.
Di più non si può fare. La Serie A, o Super League a dieci squadre è un campo di battaglia. La squadra della Capitale passeggia verso il titolo. Le altre si scannano per l’Europa, ma soprattutto per evitare la retrocessione. Sempre al fronte. Sempre con l’acqua alla gola. È una formula assurda, se pensiamo che in Challenge League ci sono club che a lungo hanno militato nella massima categoria. Persino il Grasshopper.
Aumentare il numero delle partecipanti da 10 a 14-16, non risolverebbe la schizofrenia finanziaria del nostro calcio, ma allungherebbe la classifica, e consentirebbe a un numero maggiore di società, una pianificazione più serena e tranquilla sull’arco di 4-5 stagioni. Magari, i cosiddetti club minori, invece di racimolare 20 o 30 giocatori provenienti dai cinque continenti, sarebbero maggiormente stimolati a investire nei settori giovanili. Questo già lo si fa, ma poi non si riesce a capire perché il salto dal vivaio alla prima squadra sia così complicato, e vengano di conseguenza assoldati giovani provenienti da altri paesi.
Non credo all’antico stereotipo secondo il quale gli «altri» hanno più fame. Così come mi rifiuto di pensare che i «nostri» siano tecnicamente più scarsi. È soprattutto una questione di inquietudine, di impazienza, di fregola, di necessità di vincere subito, dovuta a una formula, secondo me superata, che rischia di compromettere quanto di buono si è fatto e si sta facendo in Svizzera sul piano della formazione.