Riportare l’America al dinamismo degli anni ‘60, quando la ricerca pubblica guidava la corsa allo spazio, gli investimenti federali erano un motore di crescita. È uno dei temi che ispirano la fase due di Joe Biden. Comincia da un maxi-piano di 2000 miliardi di dollari in investimenti pubblici, concentrati soprattutto sulla ricostruzione e modernizzazione delle infrastrutture, una nuova politica industriale a favore delle tecnologie avanzate, la sostenibilità e le energie rinnovabili. La Cina incombe: tra le ragioni di questo piano c’è l’urgenza di contrastare gli sforzi di Xi Jinping per la leadership nelle tecnologie avanzate e nelle energie rinnovabili. La fase due di Biden ha un nome: «Build back better», ricostruire meglio.
Duemila miliardi d’investimenti in 10 anni sono solo una parte del progetto, e per questo primo capitolo c’è un nome specifico: «The american jobs plan». La scelta degli slogan riecheggia il nazionalismo di Donald Trump e infatti Biden è deciso a strappare al suo predecessore la rappresentanza delle classi lavoratrici, con un neo-nazionalismo di sinistra, senza mollare il protezionismo verso la Cina. La sfida con Pechino vuole vincerla nei fatti costruendo un’America più efficiente, più competitiva. Seicentocinquanta miliardi per le infrastrutture «fisiche» tradizionali, ormai spesso fatiscenti e inadeguate: strade e autostrade, porti e aeroporti, ferrovie. Altre centinaia di miliardi per la rete idrica, la rete elettrica, il wi-fi ad alta velocità, le telecom 5G, la distribuzione sul territorio di punti di ricarica per auto elettriche. Nei settori chiave della sfida cinese sulle tecnologie – semiconduttori, intelligenza artificiale, robotica, 5G, biotecnologie – ci saranno 300 miliardi per la politica industriale.
A differenza della manovra assistenziale e redistributiva già varata (quella da 1.900 miliardi), che era tutta in deficit-spending, Biden stavolta vuole una copertura degli investimenti con nuove tasse. Chiederà al Congresso di rialzare il prelievo sugli utili societari dal 21% al 28% e la global minimum tax per i profitti esteri delle multinazionali dal 13% al 21%. L’aliquota dell’imposta sul reddito delle persone fisiche sullo scaglione più elevato dei redditi dovrà risalire dal 37 al 39,6%. Il «Wall Street Journal» sottolinea l’enorme portata politica delle due manovre che Biden ha presentato: è la demolizione di tutta la rivoluzione neoliberista che ebbe inizio con Ronald Reagan nel 1980. Biden di fatto ha messo insieme un grande piano di lotta alla povertà e redistribuzione dei redditi a favore del ceto medio (come tentò Lyndon Johnson con la «Great Society» negli anni Sessanta) e ora un rilancio in grande stile di investimenti pubblici in infrastrutture che riecheggia il «New Deal» di Franklin Roosevelt negli anni Trenta. È un ribaltamento ideologico, una riabilitazione del ruolo dello Stato.
Un anno che sembra un secolo, ha smentito così tante previsioni, ha distrutto così tante reputazioni, ha ribaltato così tanti giudizi, da infliggerci una lezione di umiltà. Ricordo che appena 12 mesi fa Biden era circondato dal disprezzo dei media progressisti. Troppo vecchio e moderato. Un uomo del passato, con un bagaglio ingombrante, accusato di razzismo (da Kamala Harris!) e di avere gesti troppo affettuosi verso le donne (un estroverso cattolico irlandese, a disagio nell’ondata di #MeToo). Nelle primarie democratiche aveva esordito collezionando sconfitte, gli opinionisti tifavano per tutti fuorché per lui: maschio bianco eterosessuale, fuori moda di fronte a tante candidate e candidati neri, donne, gay. Biden non ispirava sogni o speranze, era solo «un avanzo di Obama».
Un anno dopo Biden viene descritto come il nuovo Roosevelt dagli stessi che esprimevano scherno verso di lui. Non siamo ancora arrivati al centesimo giorno dall’Inauguration day e il bilancio sembra esaltante su almeno tre fronti. Primo, la campagna vaccinazioni sta andando bene. Anche perché Biden ha avuto l’intelligenza politica di non contestare le giuste scelte del suo predecessore, che aveva finanziato in maniera tempestiva e generosa l’industria farmaceutica. Secondo, la ripresa economica è vigorosa e molti disoccupati ritrovano lavoro. La ripartenza era iniziata sotto Trump ma Biden ha mascherato come «salvataggio» («American rescue plan») quello che in realtà è un gigantesco piano di redistribuzione dai ricchi ai ceti medio-bassi. Terzo, dopo la redistribuzione arriva la ricostruzione. In meno di tre mesi siamo già alla fase due di Governo, con la seconda manovra di spesa pubblica, tutta destinata a investimenti.
Che cosa può andare storto? Se in questi ultimi 12 mesi abbiamo dovuto rivedere in meglio i giudizi su Biden, ora dobbiamo evitare l’eccesso opposto. Il tempo è stato galantuomo con lui. Il tempo potrebbe trasformarsi in un crudele tiranno. Un punto debole del suo «New Deal» rooseveltiano è proprio il calendario. Se fosse Xi Jinping a dover realizzare un piano decennale, per un leader «auto-elettosi a vita» sarebbe più facile. In America il mandato del presidente dura 4 anni; la sua capacità di governo può durare la metà. Se nel novembre 2022 dovesse tornare una maggioranza repubblicana al Congresso dopo le legislative di mid-term, che fine farà il «New Deal»?
Altre incognite non sono diverse da quelle che incontrerà il «Recovery fund» europeo: capacità di spendere presto e bene, impatto ambientale dei cantieri, resistenze della burocrazia o della società civile verso le grandi opere. L’alta velocità ferroviaria della California, una beffa crudele che viene promessa da 20 anni e finora ha solo ingoiato fondi, è la prova che anche negli Usa non possiamo dare per scontata l’efficienza dello Stato. Un’osservazione critica riguarda l’abbinamento fra grandi opere infrastrutturali e sostenibilità. Tutti questi cantieri, se aperti e gestiti con le tecnologie attuali, sono inquinanti.
Biden saprà anche far nascere una nuova generazione di macchine movimento terra a motore elettrico? Cantieri che non siano delle fabbriche di polveri sottili? È solo un esempio di come l’anima verde di questa presidenza, e la sua anima operaia, possano entrare in rotta di collisione. Infine c’è la classica obiezione delle destra liberale: la copertura fiscale di questo «New Deal» non impedirà, almeno nella prima fase, un ulteriore aumento dei deficit pubblici. Come reagiranno i mercati, il dollaro, gli investitori nazionali e stranieri sono punti interrogativi.