Continua la strage di migranti nel Mediterraneo e buona parte dell’Europa resta a guardare
Quanti ricordano Alan Kurdi? Quanti ricordano il suo corpicino riverso sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, la faccia appiccicata alla terra, la maglietta rossa rialzata sul torace, i pantaloncini azzurri, gli scarponcini? Alan era il bambino siriano di etnia curda annegato, nel settembre 2015, assieme alla madre e al fratello nel disperato tentativo di raggiungere su un gommone sovraccarico l’isola di Kos. Da lì sarebbe cominciato il lungo trasferimento verso il Canada, la terra promessa di quest’ennesima famiglia di disperati. Tutto travolto in quel breve tratto di mare. Davanti alla foto di Alan molti ebbero un soprassalto d’indignazione. Fu naturale sentirsi in debito verso il bimbo, verso la madre, verso il fratello al di là del ruolo giocato dal padre nella tragedia.
Purtroppo tale sentimento non è sfociato in alcun progetto organico di assistenza, benché Alan sia soltanto uno dei tanti fanciulli inghiottiti dal Mediterraneo in una delle più terribili ondate migratorie della storia.
Quanti ricordano il quattordicenne partito dal Mali con la pagella scolastica cucita nella tasca dei pantaloni, che secondo la madre avrebbe dovuto rappresentare il suo lasciapassare nell’Europa colta e civilizzata? Lui, il ragazzo senza nome, è perito il 18 aprile 2015 nell’imbarcazione rovesciatasi prima dell’arrivo dei soccorsi: 1’100 morti, numeri da naufragio della Seconda guerra mondiale. «Il Foglio» ha avuto il merito di ospitare in prima pagina una rabbrividente vignetta di Makkok, la nuova penna del disegno satirico italiano. Ritraeva un giovanotto riccioluto dallo sguardo perso che seduto sul fondo del mare mostrava la sua pagella al polipo, al delfino e agli altri pesci venuti a curiosare.
Purtroppo in quelle acque somiglianti a un grande lago si continua a scomparire nell’indifferenza generale. E la morte arriva quando il traguardo appare a un passo, dopo mesi se non anni di sevizie, di violenze, avendo pagato migliaia di dollari, a loro volta proventi di altri sacrifici. Anche l’appello del Papa – «un mare così bello divenuto la tomba di coloro che cercano soltanto di sfuggire alle condizioni disumane della loro terra» – non è stato raccolto, anzi è servito a rinfocolare le contrapposizioni fra i partiti. Il conto, approssimativo per difetto, è di 17 mila morti dal 2014. Il bollettino dell’ultima settimana parla di centinaia di vittime con il sospetto di ritardi voluti, di navi che potevano presentarsi in tempo senza il consueto balletto delle competenze. Tuttavia per Matteo Salvini la colpa è dei buonisti del Partito democratico «che di fatto invitano e agevolano scafisti e trafficanti a mettere in mare barchini e barconi stravecchi pure con pessime condizioni meteo». La sua soluzione sono i respingimenti, anche tenendo quei disgraziati segregati sulle navi come capitò nel 2019 con i 147 migranti bloccati per giorni e giorni sulla Open arms al largo di Lampedusa. Un provvedimento che gli è costato il rinvio a giudizio per sequestro di persona.
A eccezione della Germania, l’Europa rivolge sguardi distratti al Mediterraneo. E si fa attenta quando c’è da scaricare sull’Italia l’onere dell’accoglienza. L’Italia è combattuta fra la voglia di aiutare e la cattiva politica, che dà voce ai peggiori istinti di chi ha spesso bisogno di un nemico per sfogare la propria rabbia. Malgrado Salvini non sia più al Governo, la sua intolleranza dettata principalmente da fini elettorali ha lasciato il segno. Nel nome fittizio di un’immigrazione gestibile e operosa emerge il disegno di rimandare a casa il maggior numero possibile di questi sventurati. Così che l’opinione pubblica oscilla fra la partecipazione emotiva ai drammi individuali e il fastidio di dover affrontare un problema descrittole come irrisolvibile e pericoloso.
Eppure l’immigrazione africana e asiatica al 90 per cento non si ferma in Italia: punta alla Francia e alla Scandinavia. E quella che cerca un riparo nel Belpaese non crea particolari problemi. La malavita straniera è infatti gestita da rumeni, albanesi e slavi. Non esiste concorrenza neppure a livello di manodopera, non viene cioè «rubato» alcun posto di lavoro. I nuovi arrivati si accontentano delle mansioni che gli italiani non vogliono più svolgere, quando non sono occupazioni da moderni servi della gleba: raccolta dei pomodori in Puglia e in Campania, della frutta in Emilia e Romagna, rider sottopagati nella consegna del cibo a Milano, Roma, Torino, Bologna.
Sperare nella collaborazione libica è pura utopia. Manca un Governo centrale. Le camarille di Tripoli e di Bengasi inseguono traguardi opposti e spesso sono coinvolte nella gestione dei lager, in cui vengono detenuti i poveracci da caricare poi sopra le carrette del mare. Nel traffico operano a braccetto contrabbandieri, agenti del vecchio servizio segreto di Muammar Gheddafi, personale dell’amministrazione pubblica. D’altronde, assieme al petrolio è l’unico business di quel Paese e pare irragionevole ipotizzare una rinuncia volontaria. Non hanno dato riscontri visibili gli investimenti dell’Italia nel fornire motovedette e nell’istruire il personale militare. La marina libica è stata accusata di aver aperto il fuoco contro le imbarcazioni. Recenti immagini hanno immortalato alcuni guardacoste intervenire in mare con i bastoni per convincere gli occupanti di un gommone a rientrare in un porto libico. Adesso che si annuncia la bella stagione, ogni giorno ha in serbo la sua potenziale catastrofe. E al momento non s’intravede alcun lieto fine.