Attribuendole nel 2018 il prestigioso «Premio riservato agli interpreti d’eccezione», la città di Zurigo si è di certo distinta. Teresa Vittucci, coreografa e interprete dal carisma dirompente, fa in effetti parte di quegli artisti che, rimanendo fedeli ad un’estetica personale non sempre facile da fare apprezzare ai più, marcano la scena che abitano in modo profondo.
Nata a Vienna, la zurighese d’adozione cresce artisticamente sulle sponde della Limmat dove, alla stregua di una pianta esotica dai colori sgargianti, ammalia chi si ferma a osservarla. In quella che lei stessa definisce come una «città lavoro» che si erge su un terreno artisticamente fertile sul quale espandersi nei modi più inaspettati, Teresa Vittucci porta avanti un discorso coreografico che ha al suo centro l’idea di decostruzione. Che si tratti di questioni di genere, di rappresentazione dei corpi in tutta la loro ricca diversità, o ancora dell’indagine di mondi virtuali ormai diventati parte stessa del nostro quotidiano, Vittucci non esita a esplorare il rovescio della medaglia della nostra società ingolosita da ideali impossibili da raggiungere.
Quello che la coreografa ci offre su scena è un corpo voluttuoso, morbido, quasi astratto, così maestoso da incutere immediatamente rispetto. Un corpo che rivendica il suo diritto di mostrarsi, di occupare lo spazio scenico senza il minimo imbarazzo, che sfida fieramente le convenzioni estetiche creando un mondo utopico e inclusivo estremamente toccante e liberatorio. Se i diktat sociali che pesano sul nostro aspetto non sono certo una novità, la pressione che anche le arti della scena esercitano sui nostri corpi è decisamente più inaspettata. Indubbiamente esistono ballerine/i e coreografie che non rientrano nelle categorie prestabilite del/la grazioso/a atleta bianco/a, ma la norma in vigore resta comunque ancora quella di un corpo piacevole da vedere perché rassicurante, un corpo che non ci rimanda alle nostre stesse debolezze e paure.
In sintonia con un’estetica forte e frontale, Teresa Vittucci mira a «sconvolgere» il nostro sguardo. Nel suo We Bodies la coreografa, accompagnata dal ballerino e filosofo diversamente abile Michael Turinsky e dalla coreografa e performer tedesca Claire Vivianne Sobottke, si confronta con il concetto di «mostro», una figura storicamente e culturalmente costruita che gode della sua condizione ibrida. Né uomo né donna, né umano né animale, né creazione della Natura, né artificio maligno, il «diverso» vive ai margini, cosciente della propria forza destabilizzante.
Lo sguardo che viene posato su di noi e che noi stessi posiamo sugli altri, così come la dicotomia fra privato e pubblico, è sviluppato già a partire da All Eyes On, del 2017, in cui Vittucci si trasforma in una camgirl in contatto diretto con il suo pubblico e con gli estranei che decidono di interagire virtualmente con lei. Il pubblico, alla stregua di un voyeur smascherato dalla sua stessa posizione di spettatore, penetra nello spazio privato della performer abitato da un sentimento ambiguo di disagio e curiosità. Nella sua esplorazione della frontiera sottile che separa, soprattutto in un’epoca dominata dal filtro degli schermi, spazio privato e pubblico, Teresa Vittucci fa affiorare questioni delicate ma centrali come quella del desiderio, del potere che si esercita sugli altri e della trasformazione dei corpi in puri oggetti.
Se l’invisibilità implica l’esclusione dallo spazio sociale (e scenico), la (sovra)esposizione virtuale non è certo priva di rischi malgrado espanda in modo interessante la questione dello sguardo. Se l’identità reale ci obbliga a fare delle scelte spesso vincolanti, quella virtuale lascia invece più spazio alla mutazione, alle identità ibride e fluide.
In linea con la sua sete di decostruzione, l’assolo Hate me, tender, che ha il sottotitolo Solo for Future Feminism e che si è aggiudicato un «Premio per la Creazione attuale di danza» nel 2019, rivisita coraggiosamente niente meno che la figura della Vergine Maria. In quanto archetipo della madre buona e devota, questa rappresenta una delle figure femminili più importanti e iconiche della nostra cultura occidentale. Ciò che Vitucci vuole fare attraverso il suo assolo è liberare la Vergine Maria dall’immagine stereotipata di purezza e compassione che sembra emanare, frutto di una cultura patriarcale ancora forte, per svelarne il potenziale queer. Estendere insomma la sua compassione all’umanità nel suo insieme senza escludere nessuno.
Con Hate me, tender Vittucci si confronta temerariamente e «teneramente» (tender) con l’odio (hate), un sentimento estremo che confessa affascinarla e con il quale, a causa del suo corpo «atipico», si è spesso dovuta scontrare, proiettandolo sulla figura archetipa della Vergine Maria. Odiare teneramente significa allora confrontarsi senza tabù con ciò che ci disturba e turba nel profondo, con le ragioni di un rifiuto che non è che paura rispetto a ciò che non si è capaci di controllare. Come lei stessa lo ammette, «La Maria della performance è per me un modello che celebra la complessità dell’essere umano incontrando teneramente e senza paura la vulnerabilità. È una figura che mette in discussione e incoraggia».
Se da bambina e adolescente i suoi insegnanti di danza hanno sempre definito il suo corpo come «inadatto», «non conforme», «da nascondere», è proprio attraverso la danza, riscoperta, ridisegnata e infine libera da ogni stereotipo, che Teresa Vittucci è riuscita a rivalutarlo. La sua danza si trasforma allora in catarsi collettiva, in modello concreto per un femminismo queer che si espande ben oltre lo spazio scenico.