Relazioni bilaterali da reinventare

L’interruzione dei negoziati con Bruxelles in vista di un accordo quadro è stato uno di quei momenti forti che entrano nella lista degli eventi importanti, positivi o negativi, che caratterizzano la storia recente della Confederazione. Le reazioni sono state molteplici, in maggioranza negative, e gli interrogativi sulle ragioni che hanno indotto il Consiglio federale a prendere questa decisione, sulle scelte che converrà operare e sul futuro che ci attende, si sono susseguiti a un ritmo sostenuto. L’attenzione si è portata in particolare sulle conseguenze possibili che il paese, la sua economia e, in definitiva, la sua popolazione dovranno vivere in tempi ancora difficili da circoscrivere.
Prima però conviene ricordare, in modo succinto, quello che è successo. Il Consiglio federale ha negoziato con l’UE per ben sette anni con l’intento di ottenere un accordo che consolidasse la via bilaterale. Una via che è ampiamente approvata dalla maggioranza della popolazione. Alla fine è tornato a casa con le mani vuote, senza ottenere neanche un risultato parziale. In altre democrazie un simile governo sarebbe stato sfiduciato. Il sistema politico svizzero, però, non prevede questa prassi. I consiglieri federali in carica non devono quindi temere per la loro posizione, anche se dimostrano di non essere capaci di svolgere pienamente il loro mandato. La decisione di rompere il negoziato con Bruxelles non è stata presa all’unanimità, bensì alla maggioranza del collegio. Forse da quattro consiglieri federali, i due rappresentanti dell’UDC ed i due rappresentanti del PLR. Quattro persone che non rappresentano la maggioranza della popolazione svizzera e che non hanno ritenuto opportuno coinvolgere né le due commissioni di politica estera delle Camere federali, né il parlamento stesso. Eppure l’importanza della posta in gioco, e la sua programmazione come obiettivo di questa legislatura, avrebbero richiesto un maggiore coinvolgimento dei poteri istituzionali.
Che cosa intraprenderà ora il Consiglio federale? Tre sono le iniziative che sono state annunciate. La prima consiste nel verificare il quadro giuridico degli attuali accordi bilaterali e di adeguare, là dove è possibile, il diritto svizzero al diritto europeo. Lo scopo è di limitare gli ostacoli che l’economia svizzera potrà incontrare con i partner europei. La seconda iniziativa prevede di versare all’UE il miliardo di coesione (1,3 miliardi in dieci anni), destinato a finanziare progetti economici nei paesi dell’Est. L’importo è stato bloccato dal parlamento nel 2019 in risposta al rifiuto della Commissione europea di prolungare l’equivalenza della regolamentazione borsistica svizzera. Il Consiglio federale intende sbloccare questi soldi senza chiedere una contropartita e proporrà alle Camere federali di pronunciarsi durante la sessione di settembre. Con la terza iniziativa il Consiglio federale intende avviare con l’UE il dialogo politico al più alto livello possibile. Si può supporre con il coinvolgimento dei ministri degli esteri.
Queste misure non costituiscono certo un piano B, in grado di rappresentare un’alternativa all’accordo quadro. Sono tentativi sparsi, fatti con l’intento di contenere i danni che le probabili reazioni dell’UE causeranno alla Svizzera in svariati settori, dall’economia alla ricerca, alla collaborazione internazionale, alla credibilità, all’affidabilità ed all’immagine internazionale del nostro paese. Sono contromisure che non leniscono la delusione che la rottura del negoziato ha provocato in una larga parte della classe politica e che possono soddisfare soltanto coloro che vedono nell’UE un gigante dal quale conviene stare il più lontano possibile. Riuniti in sessione a Berna, molti parlamentari hanno espresso il loro disappunto ed hanno chiesto un dibattito urgente sulle ragioni della rottura della trattativa, nonché un’inchiesta da parte delle commissioni di gestione. Il tentativo consentirà di dar sfogo a molte frustrazioni ma non modificherà la decisione del governo. Altri hanno proposto un’iniziativa costituzionale per costringere il Consiglio federale a rivedere la sua posizione e a riprendere il negoziato. Anche in questo caso non si arriverà a nessun risultato concreto, perché i tempi sono lunghi, e si misurano in anni, prima di poter arrivare ad una decisione popolare.
L’incertezza maggiore deriva ora dalle future reazioni dei 27 paesi dell’UE. Saranno fedeli alla tesi sostenuta fin ora che senza un accordo quadro la via bilaterale è destinata a morire, oppure saranno diverse? Costringeranno la Svizzera ad assumere lo statuto di uno Stato terzo, oppure tracceranno un altro percorso? Le risposte a questi interrogativi non arriveranno presto. Diventeranno concrete solo dopo mesi, addirittura dopo anni, quando probabilmente anche la popolazione comincerà a vivere gli effetti della nuova situazione.
La Svizzera è e rimane un piccolo paese al centro dell’Europa, con un’economia molto legata all’economia europea e con valori condivisi con il vecchio continente. Il suo benessere materiale, il suo livello di vita dipende in gran parte dai rapporti che riesce a stabilire con l’Europa e non certo con i paesi situati sugli altri continenti, attraverso i cosiddetti accordi di libero scambio. È una realtà che non può essere ignorata e che deve impedirci di pensare che possiamo decidere tutto da soli senza dover tenere conto delle connessioni che abbiamo con il mondo che ci circonda.

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