Quando i sans-papiers trovarono voce

by Claudia

Nel 2001, gruppi di sans-papiers occupavano chiese e luoghi pubblici per sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema della regolarizzazione del loro soggiorno in Svizzera. Il ricordo di due protagoniste

«Me lo ricordo come se fosse ieri. Stavo seguendo distrattamente le notizie trasmesse dal telegiornale quando la mia attenzione è stata catturata dalle immagini dell’occupazione di una chiesa a Friburgo. Non credevo ai miei occhi. Finalmente le mie preghiere venivano esaudite. La lotta per la regolarizzazione dei sans-papiers aveva avuto inizio in Svizzera. Era la mia lotta, a cui volevo assolutamente partecipare», racconta oggi Maria Folleco, emigrante proveniente dall’Equador. Maria, che allora viveva nell’illegalità perché la sua richiesta d’asilo era stata respinta, si è così recata presso la chiesa Saint Paul di Friburgo. Il Lunedì di Pentecoste di vent’anni anni fa, il luogo di culto era stato infatti occupato dal «Collectif des sans-papiers». Per alcuni giorni, Maria si è aggirata guardinga, mantenendosi a distanza perché la chiesa era presidiata dalla polizia. «Non sapevo come fare, anche perché non parlavo quasi francese. Una studentessa latino-americana mi ha aiutata a entrare in contatto con il collettivo», ricorda la sessantatreenne. Maria si è unita al gruppo. Il «Collectif des sans-papiers» era composto di ex stagionali, lavoratrici e lavoratori in nero, richiedenti l’asilo respinti e da alcuni attivisti. Tra di loro c’era anche Sandra Modica, allora studentessa, oggi docente presso la Scuola universitaria professionale di lavoro sociale di Friburgo. «In quegli anni offrivo insieme ad altre persone consulenze giuridiche a sans-papiers che volevano regolarizzare la loro situazione. La legge in vigore non ci permetteva però di aiutarli tutti. Invece di abbandonarli al loro destino di clandestini abbiamo deciso di lottare al loro fianco sul piano politico», racconta la ticinese, allora trentenne. «L’idea di occupare una chiesa e di uscire dall’ombra è venuta proprio dai sans-papiers. È stata una decisione molto coraggiosa perché loro rischiavano l’espulsione». Dopo circa tre mesi di preparazione, il 6 giugno 2001 si è passati all’azione. Il «Collectif des sans-papiers» ha occupato la chiesa Saint-Paul e ha rivendicato la legalizzazione collettiva del loro soggiorno in Svizzera. «Ci siamo lanciati in questa avventura senza sapere bene quanto sarebbe durata», ricorda Sandra. «Siamo rimasti nella chiesa fino alla fine dell’estate. Da lì ci siamo spostati in un museo dove abbiamo ottenuto, per così dire, asilo politico. Di sera stendevamo i nostri materassi sul pavimento di una sala d’esposizione che di giorno era aperta al pubblico. Dopo circa due mesi ci siamo trasferiti in una sala per concerti e poi, di posto in posto, la lotta è continuata per quasi due anni».
Quella di Friburgo non è stata la prima occupazione in Svizzera. Il movimento dei sans-papiers era nato a Losanna. Il 25 aprile 2001, alcune famiglie kosovaro-albanesi, affiancate dal gruppo «En quatre ans on prend racine» (in quattro anni si mettono radici), avevano occupato la chiesa del quartiere Bellevaux. Si opponevano all’ordine di espulsione di 160 connazionali, molti ex stagionali giunti in Svizzera alla fine degli anni Ottanta e Novanta. Dopo questa prima azione spettacolare, la lotta si estese in tutto il Paese, prima nella Svizzera francese, poi nella Svizzera tedesca e italiana, dove nacque il Movimento dei senza voce.

Per la prima volta, le svizzere e gli svizzeri avevano scoperto che migliaia di persone vivono illegalmente nella Confederazione, senza un permesso di soggiorno valido e in condizioni di vita e lavoro precarie. «La solidarietà della popolazione è stata toccante», dice Maria. «In moltissimi hanno abbracciato la nostra causa e sono scesi per strada a lottare al nostro fianco. È un’esperienza che non dimenticherò mai».

Nel 2001, Maria Folleco era una delle innumerevoli clandestine in Svizzera. Originaria del Nord dell’Equador ha raggiunto la Confederazione nel 1997 dove ha chiesto asilo per motivi di discriminazione razziale. Discendente di schiavi, l’afro-ecuadoriana ha lasciato a casa quattro figli, due ancora piccoli, affidandoli alle cure del padre e della madrina. Nel 1998 la sua richiesta d’asilo è stata respinta e Maria è stata invitata a lasciare il Paese. Si dà alla clandestinità. Vive alla giornata. Trova un alloggio di fortuna e inizialmente viene sfruttata come baby-sitter e donna delle pulizie. Con il passare del tempo la sua situazione personale e professionale migliora.
Quella di Maria è una storia esemplare dei sans-papiers. Sono persone che vivono in Svizzera senza un regolare permesso di soggiorno, ma non necessariamente senza un documento d’identità. Difficile conoscerne il numero esatto visto che vogliono passare inosservati e conducono una vita «normale». A dipendenza dei metodi di calcolo, il loro numero oscilla tra le 58mila e le 105mila persone. Stando all’ultima stima della Segreteria di Stato della migrazione risalente a sei anni fa, i sans-papiers sono 76mila. Due su tre sono immigrati clandestinamente. Altri non hanno lasciato la Confederazione allo scadere del permesso di soggiorno. Infine, ci sono i richiedenti l’asilo respinti che sono rimasti nonostante la decisione di espulsione delle autorità. Quattro su cinque sono originari dell’America latina, gli altri provengono da Africa e Asia o da Stati europei non membri dell’UE e dell’AELS. Quasi il 90 per cento lavora in nero. I più lavorano nelle economie domestiche, come donne delle pulizie, si occupano dei bambini e delle persone anziane, sono impiegati nel settore delle costruzioni, della ristorazione e dell’albergheria, nell’agricoltura o nell’industria del sesso.

«Ho abbracciato la lotta sapendo che potevo perdere tutto. Ma qual era l’alternativa? Vivere per sempre con la paura di essere scoperta ed espulsa», racconta Maria Folleco. Il «Collectif des sans-papiers» di Friburgo non ha chiesto la legalizzazione di una singola persona, bensì la regolarizzazione collettiva. «Ci siamo rifiutati di definire dei criteri. Volevamo la legalizzazione di tutti, indipendentemente dal Paese d’origine o dal percorso che li aveva portati in Svizzera, senza fare alcuna distinzione tra migranti economici e richiedenti l’asilo», spiega Sandra Modica. Le autorità hanno però rifiutato le richieste dei movimenti dei sans-papiers. Il desiderio di una regolarizzazione generale deve fare i conti con i pugni chiusi della politica federale. Dopo una grande manifestazione a Berna tenuta nel novembre 2001, il tema viene affrontato dal Consiglio nazionale e da quello degli Stati nell’ambito di un dibattito urgente. Entrambe le Camere confermano la prassi adottata dalle autorità, ossia la regolarizzazione di singoli casi valutando di volta in volta la situazione particolare del richiedente. È una stangata per i movimenti in tutta la Svizzera. «A livello politico è stata durissima», ricorda Sandra. «È stata una lotta sfiancante. Ci siamo trovati contro un muro. E così abbiamo proposto dei dossier di regolarizzazione individuale. Alcuni venivano accolti, altri no e ciò ha spaccato il movimento. In seguito è giunta la stanchezza e l’amarezza». Con il passare dei mesi, le occupazioni delle chiese e dei luoghi pubblici sono finite. La lotta non è stata tuttavia vana. Grazie a una serie di interventi parlamentari, si sono fatti alcuni passi avanti: i sans-papiers hanno diritto al soccorso d’urgenza, all’assicurazione infortuni, vecchiaia e superstiti, hanno l’obbligo di affiliarsi a una cassa malattia e ricevono gli assegni familiari. I figli dei sans-papiers possono andare a scuola e in seguito seguire un apprendistato. «Avere diritto alle assicurazioni sociali è stata una bella conquista», dice Maria Folleco, che ha ottenuto nel 2010 il permesso di soggiorno dopo 12 anni di clandestinità. «La lotta non è però finita. Dobbiamo batterci per le nuove generazioni di illegali visto che il fenomeno della migrazione ci sarà sempre».

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