Un universo mobile di paesaggi meteoropatici che vivono di luci, maree e nuvole nere come il piombo. Il sole, quando c’è, accende di colori caraibici baie immense e scogliere che sembrano confini del mondo, «Luoghi così belli che, quando si riparte, si è un’altra persona…» ha scritto lo svedese Björn Larsson in Il cerchio celtico, thriller cult fantapolitico in parte ambientato proprio nei mari tempestosi delle Ebridi Esterne, un pugno di isole parcheggiate al largo della Scozia.
Sono le Av Bred Ey dei vichinghi, le isole «al limite del mare» quintessenza di una Scozia estrema dove onde e vento hanno avuto tutto il tempo di prendere una lunga rincorsa direttamente dal Labrador, e i battelli di salvataggio sono sempre pronti a scivolare in mare. Non più di duecento chilometri dal faro di Butt of Lewis a nord all’isola di Barra a sud, dove il marrone nerastro della torba, il verde delle brughiere e il bianco accecante delle spiagge fanno da sfondo a chiese medioevali e dolmen intagliati nelle rocce più antiche del mondo, gneiss formatisi 2900 milioni di anni or sono.
A Traigh Losgantair, sull’isola di Harris, i confini tra mare e terra smettono di esistere un paio di volte al giorno quando la bassa marea disegna con lentezza impercettibile canali e arcipelaghi di sabbia per poi cancellare chilometri di spiaggia in pochi minuti, trasformandoli in un immenso specchio di mare che riflette il cielo. In un cottage appeso tra la brughiera e la spiaggia John Mackay tutto questo lo racconta tessendo le sfumature del clò mor, il «grande tessuto». Il tweed, anzi l’Harris Tweed.
Non è solo una stoffa ma qualcosa di intimamente legato alle tradizioni del mondo gaelico e ai colori dei suoi paesaggi, il verde dell’erica, il marrone della torba, il viola dei mirti, il rosso scuro del crotal, un lichene grattato via dalle rocce. Per capirlo bisogna ascoltare John quando parla come un elfo di Tolkien, nel suo accento scozzese che sibila come il vento che qui non manca mai, soprattutto intorno alle colline da cui emerge il campanile dell’antica chiesa di Saint Clement a sud di Harris dove tra le ombre delle navate i drakkar, le navi sottili scolpite sulle tombe dei chieftains del clan MacLeod, rievocano un popolo che ha attraversato come una tempesta questi mari, i vichinghi.
«Se guardi una mappa di Lewis, il 90% dei toponimi e il 31% del DNA del clan MacLeod dell’isola di Lewis – divisa da Harris non dal mare o dalla geografia ma dagli invalicabili confini dei clan – è di discendenza vichinga» esordisce il mite reverendo MacLeod che di quei suoi terribili antenati conserva solo i lineamenti. «Qui sei secoli fa si parlava norvegese e il gaelico che noi cerchiamo di conservare in realtà era il linguaggio della cultura e delle classi alte che i nostri antenati norvegesi avevano adottato». Lui è un pastore dei Wefrees, come si autodefiniscono i fedeli della Free Church protestante radicata soprattutto in questo lembo di Scozia, uomini asciutti e anziane signore dotate di permanenti al titanio insensibili a venti e tempeste che ogni domenica sotto un cielo imbottito di nuvole grigie si dirigono verso qualche candida chiesetta dove la funzione inizia sempre in gaelico.
Sono rimasti in pochi, soprattutto dopo le Clearances di due secoli or sono, quando molti proprietari terrieri costrinsero i loro antenati a emigrare in America, spesso sotto la minaccia dei fucili, per fare posto alla «peste bianca», le più redditizie pecore Cheviot Blackface. Sono ovunque, dormono in mezzo alla strada e ti squadrano alzando a stento il sopracciglio mentre si godono il caldo dell’asfalto, vere padrone di un arcipelago dove i villaggi sono grumi di cottages, e «quando costruisci una casa devi guardare come soffia il vento, altrimenti certi giorni non riesci neanche ad aprire la porta» ironizza Chris, un insegnante di Balbecula.
Bisogna saper vivere sotto questo cielo che certi giorni è così alto da dare le vertigini, irraggiungibile anche per i monoliti dei cerchi di pietre di Calanais eretti prima di Stonehenge, tra il 2900 e il 2600 a.C., testimoni di una lunga storia come l’antico broch di Carloway, una sorta di grande nuraghe fortificato che domina un paesaggio di torba e di loch, i fiordi che scandiscono la costa. Sull’isoletta di Great Bernera il passato lo ricostruiscono ogni anno, in senso letterale, da quando nel 1985 una tempesta ha fatto riemergere dalle dune un villaggio dell’Età del Ferro. Gli archeologi lo hanno ricoperto di sabbia per proteggerlo dalle tempeste invernali, ma un gruppo di appassionati ha ricostruito una capanna, «bisogna rifare il tetto ogni estate» sospira James Crawford, architetto e archeologo dilettante. «È un modo per salvare la nostra cultura perché noi siamo più vicini all’Islanda che a Londra».
Una storia unita da trame invisibili alle croci celtiche tra le romantiche rovine delle chiese medioevali di Howmore lungo le grandi spiagge dell’isola di South Uist, una frontiera religiosa che ha diviso le Ebridi tra la Riforma protestante che scendeva da nord e la Controriforma cattolica che saliva dall’Irlanda, ma è la stessa gente, comunità di pescatori che lavorano e vivono insieme dove i problemi sono altri, soprattutto l’alcool che rode dentro durante inverni bui e freddi. Solitudini in cui ogni tanto irrompeva la Storia, dai vichinghi a Charles Edward Stuart, il Bonnie Prince Charles delle ballate scozzesi che per riconquistare il trono nel 1745 sbarcò a Eriskay, un’isoletta di South Uist, per poi ritornarci un anno dopo, disastrosamente sconfitto a Culloden. Fu solo grazie a una ragazza del posto, Flora MacDonald, che passò il Minch, lo stretto di mare che divide le Ebridi Esterne da Skye, travestito da serva irlandese per sfuggire alle navi britanniche, poi si imbarcò per la Francia e a Flora restò solo una ciocca di capelli e la promessa di rivedersi a Londra, dove invece passò un anno rinchiusa nella Torre di Londra per averlo aiutato.
Da allora la Storia si è definitivamente allontanata dall’arcipelago e strade, televisione e computer hanno compresso secoli di cambiamenti nello spazio di una generazione, e qualche volta di fronte agli «stranieri» gli abitanti delle Ebridi si sentono come gli ultimi maya. Poi ci ridono volentieri sopra e tirano avanti, rassicurati nelle loro radici dalla vista di microscopici porti in coma profondo dove l’arrivo del ferry è l’unico colpo di vita e i pescatori infagottati sorseggiano l’ultimo goccio di uisge beatha, l’«acqua felice» o «acqua di santità» più conosciuta come whisky, prima di essere risucchiati in un mare tra i più imprevedibili e tempestosi d’Europa.