Siamo nati per lavorare?

Il lavoro definisce la nostra posizione nella società, determina dove e con chi trascorriamo gran parte della nostra giornata, è il mediatore della nostra autostima e un mezzo per trasmettere i valori in cui crediamo. Siamo sempre più indaffarati e occupati, a discapito del tempo libero. Ma lavorare fa davvero parte della nostra natura? Secondo l’antropologo James Suzman, per il novantacinque per cento della storia dell’umanità, il lavoro non ha avuto il ruolo sacro che occupa adesso. Dopo avere trascorso quindici anni vivendo con il popolo Ju/’hoansi della Namibia, una delle poche società ancora dipendenti dalla caccia e dalla raccolta, Suzman ha scritto Lavoro. Una storia culturale e sociale (Il Saggiatore), appena pubblicato in italiano. Il testo spazia dalle origini ai nostri giorni, tra antropologia e zoologia, fisica e biologia evolutiva, economia e archeologia.
Come mai il lavoro è così legato alla nostra identità?
Se consideriamo il lavoro attraverso le varie culture, osserviamo che benché tutti capiscano cosa sia, il suo significato cambia profondamente in base ai luoghi e alle persone. Storicamente in Occidente il lavoro è diventato un fattore identitario dopo che gli esseri umani si sono trasferiti nelle città, allontanandosi dalle campagne, dove l’idea di lavoro era legata al sostentamento. Questa transizione ha portato a un’enorme fioritura di professioni diverse, perché non c’erano più i bisogni primari di produzione del cibo, di quando abitavamo in campagna, da soddisfare. E così quello che abbiamo fatto è stato formare comunità basate su esperienze, conoscenze, modi di fare le cose e status sociali condivisi. È interessante notare come con la pandemia, forse, stiamo iniziando ad allontanarci dal modello che si è instaurato nel corso dei secoli. Per la prima volta ci siamo ritrovati a trascorrere meno tempo di prima con i colleghi, negli uffici, per stare invece con le nostre famiglie, in casa. Abbiamo ridimensionato il ruolo del lavoro e realizzato che siamo anche altro.
Quindi la pandemia sta cambiando la nostra idea sul lavoro?
Per il momento, dato che abitiamo ancora nelle città, ci confrontiamo con chi ha le nostre stesse esperienze e continuiamo a identificarci con le nostre professioni. Viviamo in società dove il patto sociale è basato sul fatto che tutti dobbiamo lavorare: abbiamo l’idea che chi non produce non contribuisca davvero allo sviluppo, una visione che trovo in molti modi malsana. Non è semplice cambiare, siamo creature abitudinarie. Basta pensare che il lavoro da remoto, flessibile, che abbiamo sperimentato per forza durante la pandemia, sarebbe già stato possibile da vent’anni grazie all’uso diffuso della banda larga e all’espansione di Internet. Ma non è mai stato adottato prima a livello generale semplicemente perché c’era la credenza, dei datori di lavoro, che un cambiamento avrebbe portato a un crollo. Abbiamo dovuto sottoporci a questo vasto esperimento dell’ultimo anno e mezzo per capire che il telelavoro non è veramente terribile. Si è visto che la produttività non è diminuita in maniera sostanziale, anzi, in alcuni ambiti è addirittura aumentata perché le persone non si sono più dovute sottoporre a spostamenti lunghi e difficili nei centri delle città. Abbiamo capito che anche se, nelle economie occidentali, abbiamo lavorato meno di qualsiasi altro periodo recente, le nostre economie non sono precipitate. Inoltre, la pandemia ci ha fatto riflettere profondamente sul senso della vita. Uso una citazione molto conosciuta: nessuno, mai, sul letto di morte dice che, ripensandoci, avrebbe voluto lavorare di più. Quindi stiamo iniziando a chiederci: è necessario fare come in passato? Cosa conta davvero? Ho la sensazione che il cambiamento possa partire proprio da qui.
Anche le paure che avevamo sull’automazione del lavoro sono cambiate?
Dalla rivoluzione industriale in avanti c’è sempre stata paura delle tecnologie. Adesso ci troviamo in una quarta rivoluzione e abbiamo bisogno di affrontare il passaggio epocale in cui le macchine sono in grado di realizzare molte più cose di quanto avremmo mai immaginato possibile fino a venti o trent’anni fa. Se capiamo come sfruttare la ricchezza prodotta dalle economie automatizzate, allora non priveremo le persone del lavoro ma daremo loro la possibilità di occupare il tempo in modi più significativi. Penso, ad esempio, al numero incredibile di artisti, musicisti, scrittori, fotografi che semplicemente non possono guadagnare abbastanza facendo ciò che amano e sono costretti a sprecare il tempo in lavori banali perché sono stati sfortunati, dato che viviamo in un sistema nocivo che non prende il meglio delle persone.
Nel suo libro spiega che per la maggior parte della nostra storia, mentre eravamo cacciatori-raccoglitori, avevamo molto tempo libero. Quali sono le differenze rispetto ad oggi?
I cacciatori-raccoglitori, i nostri antenati, incentravano i loro sforzi nel soddisfare i propri bisogni di base. Erano molto abili in quello che facevano, conoscevano il posto dove vivevano, sapevano come trovare il cibo e avevano fiducia nell’ambiente che li circondava. Faticavano per le necessità a breve termine, per il sostentamento quotidiano. Non si preoccupavano di accumulare grandi eccedenze dato che erano costantemente certi di farcela. Così si concentravano sul presente, non erano ostaggio di aspirazioni future. Una volta che il lavoro era finito, erano liberi di godersi il tempo libero. L’arte, la musica, la creatività e tutto il resto derivano dal tempo in eccesso che le persone hanno avuto nel corso della storia dell’umanità, perché una volta che avevano appagato le esigenze di base, usavano le energie in altro modo. Al contrario, col passare dei secoli, siamo diventati una specie ossessionata dalla scarsità, mai abbastanza soddisfatta e sempre proiettata sul futuro. Lavoriamo per qualcosa che ci fornisce valore non adesso ma sempre in un altrove temporale e abbiamo la sensazione perenne di dovere fare continuamente di più.

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