L’entrata in scena del Movimento 5 Stelle, bisogna ammetterlo, era stata clamorosa. Caratterizzata dalla spinta «dal basso» di centinaia di migliaia di insoddisfatti del sistema politico italiano, indirizzata e aizzata dalla verve polemica e provocatoria di un comico, organizzata dalla piattaforma informatica «Rousseau» ideata da un guru della comunicazione, nel 2009 aveva portato sul mercato politico un prodotto decisamente nuovo.
L’esperimento italiano aveva suscitato l’interesse e anche lo sdegno di osservatori politici da tutto il mondo. Ricordiamo una divertente copertina dell’«Economist» che sottolineava la loro entrata in Parlamento nel 2013: un fotomontaggio in cui Silvio Berlusconi era affiancato da Beppe Grillo, sormontati dal titolo «Let in the clowns». Al di là di tutto, il fenomeno era degno di essere osservato perché indicativo, forse, di una metamorfosi ideologico-digitale: il partito (o meglio, il movimento) che si confronta e discute le sue istanze su Facebook, che si riunisce in teleconferenza, che decide di imporre ai suoi eletti la rinuncia a una parte degli emolumenti loro assegnati e la limitazione a due anni per i loro mandati, lasciava presagire forme di gestione della cosa pubblica e della partecipazione politica degli elettori fuori dalle logiche usuali.
Erano i tempi, qualcuno ricorderà, della nascita nel nord Europa dei «Partiti pirati», formazioni che mettevano le istanze legate alla comunicazione digitale al centro della loro proposta elettorale. I 5 Stelle si ponevano apparentemente su un piano analogo: uno dei loro cinque postulati fondamentali (da cui prendevano il nome) era la libertà di connessione a internet per tutti. Molti osservatori nel nostro Cantone, cercando di capire, confrontavano proprio i 5 Stelle e i «Pirati», ma, di fatto, la protesta incarnata dal movimento difficilmente si prestava a paragoni.
Nata specificamente come reazione ai problemi sistemici della politica italiana, (consociativismo, corruzione, connivenze tra politica e malavita, cattiva gestione amministrativa, clientelismo, favoritismo della casta) la formazione si proponeva una rivoluzione culturale, un cambiamento di paradigma nella gestione della cosa pubblica. E del resto, nelle file dei 5 Stelle sono confluiti vari tipi di elettore. Quelli alla ricerca di un modello di partecipazione politica che usasse come arma la libera espressione (il web era ritenuto una sorta di risolutore di ogni problema di rappresentanza e un’istanza di inevitabile democratizzazione); quelli che semplicemente volevano svincolarsi dalle rigide definizioni, uscire dalla logica destra-sinistra per riprendere in mano la gestione concreta della realtà sociale.
Se ci torna alla mente la genesi così originale dei 5 Stelle oggi, è perché stiamo assistendo proprio in questi giorni a una fase di grande confusione e di frattura interna che conduce il Movimento a nominare una commissione di sette saggi, ai quali affidare la futura personalità dello schieramento. Dopo il fallito tentativo di normalizzazione affidato a Giuseppe Conte, il «garante» (e proprietario dello stemma elettorale) Beppe Grillo ha investito alcuni membri storici del Movimento di un compito difficile. I sondaggi non sono favorevoli, le prossime tornate elettorali si preannunciano come molto difficili.
Di nuovo, questo esperimento politico italiano si presterà come oggetto per interessanti osservazioni e sorprese. Quel che è certo è che la loro modalità di comunicazione, dapprima criticata, è stata poi adottata dai politici di tutti gli schieramenti. I 5 Stelle insomma hanno fatto scuola. Resta da vedere ora se sapranno inventarsi un futuro.